De chaque instant è un’idea che Nicolas Philibert coltivava da molto tempo, accade poi che nel gennaio del 2016 il regista viene ricoverato in terapia intensiva per un embolo, e una volta guarito decide finalmente di girare questo film sulla «cura», medica e non solo, esplorata a partire dal lavoro degli infermieri. Non è però un film sulla sanità il suo, quanto il racconto di una formazione (i protagonisti sono gli allievi infermieri di Croix Saint Simon, a Montreuil) la cui pratica passa per prove complicate, dolorose, non sempre controllabili, che mettono in gioco le emozioni, l’intimità, che riguardano la vita, la morte, il corpo in una condizione di fragilità, nella malattia, all’opposto di un quotidiano che lo vuole sano e funzionante.

E forse proprio perché il suo autore mette da parte qualsiasi «buona intenzione» dogmatica («Non volevo certo fare un pamphlet») De chaque instant dice molto, e con estrema precisione, sul nostro tempo – sanità compresa – quasi che il suo universo chiuso riesca rispecchiarne i conflitti senza deformazione. Philibert è un regista che sa porsi all’ascolto della realtà, e di quanto accade davanti alla sua macchina da presa, senza pretendere di imbrigliare gesti e tensioni nelle sue tesi. È un po’ la scommessa, che mette alla prova film dopo film dai tempi di Essere e avere (2002), il mondo colto nella classe unica di un paesino isolato della Francia fino a La Maison de Radio (2013), una giornata negli studi di Radio France che rivela il fare invisibile dell’ascolto, entrando in mondi dall’apparenza a sé, che nel suo sguardo divengono «dispositivi» di narrazione della realtà e di allenamento al cinema.

Commedia, umorismo, sorriso, lacrime si inseguono e alternano nel suo racconto.
Ecco che allora nelle parole degli insegnanti, quando spiegano i principi che regolano la professione basati sull’eguaglianza, sulla richiesta di occuparsi allo stesso modo dei pazienti quale che sia il loro stato, condizione, sesso, religione deflagra il mondo, quasi che quel mestiere coincida con l’orizzonte di una democrazia inclusiva contro la discriminazione messa in opera nelle politiche europee attuali, di cui il razzismo è una punta, quella più semplice da impugnare per le demagogie, in un progetto di smantellamento dei diritti per tutti.

Dalle prime sequenze, relative allo stage, dove i giovani infermieri imparano a sterilizzare le mani, strumento principale del loro lavoro, a confrontarsi con le emergenze, gli imprevisti e la routine della cura – iniezioni, analisi del sangue, controlli ecc – si passa alla pratica che li mette a confronto con le persone «vere», con la loro sofferenza e con le loro paure. Come trovare le parole giuste, le intonazioni, le sfumature che sono altrettanto importanti – se non ancora di più – per chi si trova in una condizione di debolezza incerta? Non solo una questione di tecnica ma di equilibrio, di tranquillità con se stessi necessaria per assumere la cura degli altri.

Sono molte le questioni che vengono sollevate durante il corso, e in molti casi, come il rapporto con il fine vita, interrogano ancora una volta la società e insieme il singolo. Non tutti i giovani infermieri riescono a trovare una posizione di fronte alla morte, qualcuno crolla, qualcun altro prova a inventare spazi di fuga, depressione, tentativi di suicidio, malattie terminali, il lutto è per ciascuno un processo personalissimo. Il malato rimane fuori campo, non è lui il soggetto del film pure se ne è il protagonista, ma appunto coloro che se ne occupano.

Eppure è una presenza fortissima, imprescindibile, che nell’esperienza di chi gli sta accanto giorno dopo giorno ci parla senza retorica dell’essere umano.
«Durante il giorno c’è poco tempo per sognare, la notte è più semplice fermare le persone e parlare con loro». Per questo Matthieu Baryre ha girato nel corso di tre anni filmando per le vie notturne di Parigi la giovane generazione (18-25 anni) post Charlie Hebdo. Place de la Republique, Champs Elysées, il lungo Senna, i ragazzi si raccontano, parlano molto e senza troppa timidezza davanti alla macchina da presa, quasi con fervore, un po’ ubriaco, un po’ strafatto, come loro che la notte amano sconvolgersi senza che questo però, in molti casi, intralci i piani del giorno – vedi il programma della vita. L’epoque – Cineasti del presente – è dunque la nostra epoca di fragilità e di tentativi frammentari di resistenza, la lente è la Francia di Hollande (ieri) e di Macron, delle piazze occupate e dei CRS che caricano, di chi come Rose, un po’ la calamita di questo film, ragazza di famiglia africana con cittadinanza francese vorrebbe fuggire via, buttare il suo passaporto stanca e svuotata dalle continue violenze contro di lei e contro i ragazzi come lei che vengono dalle periferie e crescono col razzismo sociale e la discriminazione.

Le voci dei «borghesi» parlano del bisogno di divertirsi con la consapevolezza di studiare, quelle dei ragazzi che vivono in periferia e non hanno neppure il diploma dicono di un futuro di piccoli furti e mezzi disparati per cavarsela. Precarietà del contemporaneo? Poteva essere un punto di osservazione forte se il regista non si facesse ingabbiare da quelle «buone intenzioni» di cui parla Philibert. La sua esigenza di «dimostrare» infatti produce dei paralleli continui che sono anche di fastidioso moralismo: danzare, uscire, passare la notte fuori è forse un delitto? È come se questo opporre «ricchi» (o meglio privilegiati) e «poveri» in quanto sostanza della società attuale ne censurasse lo sguardo: è una questione di consapevolezza certo della propria posizione ma prima che dai suoi ragazzi nella notte il regista dovrebbe esigerla da sé, senza schematismi, con la curiosità della scoperta.