Quello che nasce non è il governo perfetto, né poteva esserlo; sia per la sua stessa genesi, sia per i rapporti tra le forze che lo compongono e le tante questioni irrisolte che le attraversano. È un governo necessario, però. E il compito della politica è anche fare di necessità virtù.
Ai troppo scettici e ai “preoccupati” in buona fede, voglio chiedere con chiarezza: quale altro scenario realistico li avrebbe preoccupati di meno? Non insisto su questo, perché la risposta è palese.

Che, intanto, l’andamento della crisi abbia restituito la parola al Parlamento e centralità alla Costituzione, rimesso in moto un quadro politico che sembrava strutturarsi per un lungo, pericoloso periodo, sono dati di fatto difficilmente contestabili; ma poi, del resto, nella vita come nella battaglia politica, ci sono “porte strette” da attraversare, si sa di doverlo fare senza garanzie su ciò che sarà.

Detto questo – e preso atto, per quanto è dato capire mentre scriviamo, che la base programmatica si distingue già con evidenza da quella precedente ed ha già mosso l’asse complessivo e quelli interni delle forze maggiori – ragionare su quello che a me sembra il limite di fondo di questa coalizione, può aiutare a superarlo e a correggere. Perché un governo si giudica da quello che fa, ma la storia ci insegna che la sua forza è anche nel saper parlare al Paese, nel far crescere – nei soggetti in campo e tra tutti i cittadini – la consapevolezza dell’indirizzo di fondo.

Ciò è tanto più necessario perché la fragilità della democrazia italiana nasce da un lungo sfinimento delle sue radici e non è certo risolta, si è, per il momento, solo opportunamente evitata la sua implosione; e, seppure queste settimane hanno aperto un sentiero nuovo, il paese reale non è cambiato ipso facto.

La battaglia è appena cominciata e sarà bene ricordare che, per quanto importantissimi, non la si vince solo con i provvedimenti di governo.

Perché esso, superando la necessità, possa produrre la virtù, credo siano necessarie due cose. Innanzitutto rendere esplicito il cambiamento dell’asse strategico delle due forze maggiori.

Nessuno pretendeva una loro autocritica nelle concitate settimane che abbiamo vissuto; ma affinché il programma di governo – pur con tutti i limiti (e ciascuno, del resto, sottolinea i suoi) – possa essere veramente una “sintesi” condivisa, capace di durare e produrre risultati, serve fare i conti, esplicitamente, culturalmente e politicamente, con le proprie discontinuità, non solo con quelle degli altri.

La seconda: parlare alla società italiana, chiamare a raccolta quelle forze sociali, quei movimenti che, in questo anno e mezzo (e anche prima), si sono mobilitate, spesso autonomamente e magari in forma dispersa, contro i tanti brutali arretramenti che le forze democratiche non riuscivano a contrastare (o che, in qualche misura, avevano facilitato).

Per evitare che il morto, o i morti, afferrino il vivo, è alla mobilitazione civile e sociale che occorre far ricorso; fare del governo una cabina di regia di una nuova stagione della democrazia italiana.

Questa può essere una “pietra angolare”, oppure no; ma in nessuno dei due casi le cose torneranno nella, pur pessima, condizione di qualche mese fa. Se qualcuno crede che sia pretendere troppo da questo governo, credo non abbia la percezione dello scenario storico in cui la cronaca si muove, che era e resta – nell’orizzonte nazionale e internazionale – assai simile ad una Weimar del XXI secolo.

E non se ne esce solo dai palazzi o abbassando gli obiettivi.