In apertura del suo volume sulla fotografia, L’infinito istante, Geoff Dyer affermava che, pur non essendo un fotografo, era comunque in grado di vedere il genere di fotografie che avrebbe potuto fare se lo fosse stato. «Ho anche la sensazione», spiegava, «che il non fare fotografie sia una condizione per scrivere di esse, come il non suonare alcuno strumento musicale è stato per me un requisito indispensabile per scrivere di jazz». A distanza di una dozzina d’anni, essere deluso da una meta agognata, raggiungere un anticlimax (una zona assolutamente desertica, un luogo che non mostra bellezze architettoniche o paesistiche) sembra essere, per Dyer, la condizione indispensabile per scrivere di viaggi.

I luoghi oggetto delle «esperienze del mondo esteriore» contenute nella sua ultima raccolta di saggi, Sabbie bianche (traduzione di Katia Bagnoli, il Saggiatore, Milano, pp. 217, euro 20,00) suggeriscono quale tipo di fotografie, alquanto minimaliste, Dyer scatterebbe, se fosse un fotografo. Sulle orme di Gauguin, a Tahiti, tutto lo delude: Papeete gli appare come «una cittadina francese di quelle dove non ti sogneresti mai di passare le vacanze, un luogo che esiste solo allo scopo di far sembrare attraenti altri luoghi», buono al massimo per ambientarci uno di quei film di Rohmer «dove non succede niente»; il museo Gauguin, una patetica raccolta di fotocopie dei dipinti del pittore sparsi in giro per il mondo.

Di Hiva Oa, nelle isole Marchesi, estremo approdo di Gaugin, Dyer apprezza solo un campo da calcio vuoto, che gli rammenta una «fotografia dimenticata che fissa l’attimo in cui viene ricordata e scoperta», nella fattispecie una foto di Luigi Ghirri riprodotta sulla copertina di un disco di Don Cherry, in cui l’assoluta immobilità trasforma i pali e la traversa, incorniciati dal fondo bianco, nel «fotogramma di un sogno». Non resta, al viaggiatore eternamente deluso, che relazionarsi al paesaggio proprio come di fronte a una foto di Ghirri: «guardare e aspettare … esserci», «restare sospesi … guardando la porta dentro la porta».
Proprio in quella volontà di «esserci» comunque, nonostante le delusioni – anzi, forse proprio attraverso le delusioni – sta la chiave di lettura del rapporto di Dyer con i luoghi. Al pari del suo autore-feticcio, D. H. Lawrence, cui ha dedicato un saggio molto sui generis, Out of Sheer Rage, Dyer indaga sull’intersezione tra la sensibilità del singolo e la «nodalità» di alcuni luoghi particolari, ovvero il loro porsi alla confluenza tra storia e geografia, laddove il tempo si impone sullo spazio, dando luogo a un senso di permanenza cui si oppone, in un contrasto ora ironico ora drammatico, l’umana transitorietà.

È evidente che non siamo di fronte a un banale libro di viaggi, ma piuttosto a un anti-travelogue, un lavoro in cui – come sempre accade nell’universo letterario di Dyer, che ha fatto dell’inclassificabilità il proprio marchio di fabbrica – i confini tra narrativa e saggistica, fatto e finzione, sono volutamente confusi. «Il succo della questione», spiega lo stesso autore in una nota di apertura, «è che il libro non vuole essere letto pensando a quanto si discosti da una presunta linea di demarcazione – una linea che separa certe forme letterarie e le aspettative che generano – perché si suppone che si regga in piedi da solo». Del resto, dei nove capitoli che compongono il volume, almeno due appaiono più simili alla narrativa breve che alla saggistica.
In questo senso,«White Sands», il pezzo che dà il titolo alla raccolta nell’originale inglese, è emblematico. La struttura e la trama sono quelle di una short story di taglio carveriano; protagonisti ne sono lo stesso Dyer, che racconta in prima persona, la moglie Rebecca (che però in tutto il volume è chiamata Jessica) e un autostoppista caricato sulla strada tra White Sands e El Paso, poco prima di imbattersi in un cartello che invita a non dare passaggi agli sconosciuti, causa la presenza di centri di detenzione nella zona.

La storia gioca sul senso di paura e di sospetto che viene a crearsi dopo la lettura del cartello e che porta, da ultimo, all’abbandono dello scomodo passeggero in una stazione di servizio sperduta nel deserto. Lo stesso Dyer ha avuto modo di osservare come qui l’autostoppista sia una figurazione narrativa della difficoltà di incasellare il volume in un particolare genere letterario, mentre il cartello mette in evidenza come la categorizzazione predetermini l’esperienza di lettura. Dopo aver visto il cartello, infatti, lo scrittore e la moglie credono di identificare l’autostoppista con un pericoloso evaso: allo stesso modo, gli scritti di Dyer verrebbero letti in maniera probabilmente sbagliata se fossero incasellati in qualche categorizzazione precostituita, distruggendone l’effetto spiazzante che ne è la caratteristica più originale.

Così come «White Sands» è e non è una short story, «Notte boreale», dove Dyer e signora raggiungono il massimo della frustrazione nel corso di un viaggio talmente fallimentare da potersi considerare «una vita intera di delusione condensata in meno di una settimana», non è né saggio né racconto, ma piuttosto un ibrido in cui all’ironia si mescolano uno humour tipicamente britannico e un’irrequietudine che ricorda l’insofferenza del Lawrence viaggiatore senza posa, che dichiarava di voler vedere il mondo, non fosse altro che per arrivare a rendersi conto di non volerne vedere di più.

Anche Dyer, del resto, ammette di viaggiare perseguitato dal «desiderio di essere altrove»: al quesito esistenziale «perché siamo qui?», risponde: «Siamo qui per andare altrove». A volte, in quell’altrove sembra intravedere un punto di arrivo: di fronte ai monumenti della Land Art – il Lightning Field di Walter De Maria, la Spiral Jetty di Robert Smithson – la delusione si tramuta nel suo opposto; i luoghi sprigionano una peculiare energia, una trascendenza, un senso di meraviglia.

Le Watts Towers di Simon Rodia, sorte come «spettacolarizzazione dei simboli meravigliosamente realizzati dei sogni degli immigrati», visitate con Mingus e Albert Ayler come colonna sonora, diventano allo stesso tempo «i totem locali dell’espressione e delle aspirazioni culturali afroamericane» e la materializzazione del rapporto tra i luoghi che non cambiano e gli oggetti circostanti che, invece, continuano a mutare.

In un altro caso, il pellegrinaggio a quelle che furono le abitazioni a Los Angeles dei grandi esuli tedeschi – Adorno, Horkheimer, Brecht, Mann – è pretesto per una riflessione sulla non permanenza delle cose terrene, che troverà una più esplicita formulazione nell’ultimo capitolo del volume, dovecui Dyer parla dell’ictus, fortunatamente di lieve entità, che lo colpì nel 2014, all’indomani del suo trasferimento in California. Alla luce di questa drammatica occorrenza, l’intera raccolta acquista un nuovo senso. Tutte le delusioni di cui si dà conto in Sabbie bianche altro non sono, in definitiva, se non la prova di quanta speranza e quante aspettative lo scrittore ancora riponga nel mondo: «Quando non sarò più capace di restare deluso l’avventura sarà finita: tanto vale essere morti», scriveva a commento del suo deludente viaggio a Tahiti. E al termine del volume, dopo aver constatato che il suo «senso dell’inevitabile tedio della vita» si è ripristinato appieno, conclude affermando: «La vita è così interessante che mi piacerebbe restare qui per sempre, solo per vedere che cosa succede, come va a finire».