Si può declinare la poesia con il paradigma della giustizia? E quello che riesce a fare Franco Buffoni con il suo saggio narrativo edito da Vallecchi e intitolato, appunto, Giustizia (pp. 88, euro 8). È un percorso non facile e inoltre controcorrente. Si tratta infatti di togliere la poesia, e il discorso su di essa, dal reparto dolciumi, per rimetterlo in quello suo proprio del fare e della necessità.

IL PUNTO DI PARTENZA è la tradizione poetica italiana: Buffoni la individua nella «ragione giudiziaria» che risale a Petrarca, più che alla pietas della Commedia di Dante. Il punto di contatto tra questi due mondi apparentemente lontani è la Law and Literature, lo studio del diritto nella letteratura, attraverso la presenza di temi giuridici nelle opere (Il processo di Kafka), e del diritto come letteratura, che analizza gli aspetti romanzeschi e narrativi della produzione giuridica. Nato negli Stati Uniti negli anni ’90, più che una particolare linea critica, individua un vero e proprio movimento d’azione che si è posto lo scopo di «cogliere l’elemento umano mancante negli studi giuridici», ma al contempo fornire alla letteratura una struttura razionale e una funzione di vigilanza civile.
Buffoni parte dall’origine di tutto. Ci ricorda che per Aristotele la poesia è superiore alla storia perché ci mostra ciò che deve accadere e non solo ciò che accade di fatto. «L’ordine del possibile è così pensabile come un’idea di giustizia». Veniamo così avviati su un percorso della poesia che è liberazione dalla coazione della natura e dalla terribilità di un destino scritto da altri. Dallo sforzo mimetico di Oscar Wilde e Max Beerbohm di liberarsi dall’angoscia del nascondimento, al desiderio di eloquenza dell’epistolario tra Leopardi e Antonio Ranieri, dall’esattezza linguistica di Pascoli e della Dickinson alla lotta tra parole «sane» e parole «malate» in Amelia Roselli ed Elisabeth Bishop, la poesia è la lingua della lotta contro un diritto «abominevole» – come nella definizione di Matteo M. Winkler e Gabriele Strazio – e la liberazione omosessuale diventa la tappa finale dell’emancipazione umana.

LA DIGNITÀ sta in un dettaglio che incarna la differenza. E la narrazione poetica permette, più di ogni altra, questa focalizzazione. Così ribadisce in questi suoi versi, Lessi una dignità in quel gesto educato/ Al cameriere, una felicità/ Di esserci/ Intensa, stabilita. Decisi li avrei pensati sempre/ Così dritti sulle sedie col menù». In questa vocazione alla cittadinanza sta la sorgente della poesia più autentica.
Come ha precisato Wystan H. Auden, «le parole nascono in poesia, vengono usate nel linguaggio della prosa, infine muoiono in quello della pubblicità».

I FILI D’ERBA della poesia introducono persino un inedito e condivisibile discorso sulla Costituzione, là dove l’art. 29, se richiama l’idea di famiglia naturale fondata sul matrimonio, non fa distinzione di genere; né possiamo, anche alla luce di due altri articoli quali il 2 e il 3 che sanciscono l’uguaglianza e la pari dignità di fronte alla legge, dare per implicito, secondo un’interpretazione intenzionale ideologica e confessionale, che i costituenti intendessero meccanicamente il matrimonio tra un uomo e una donna. «Per la stipula del matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, quindi, non è necessario cambiare la Costituzione: la verità è che basterebbe applicarla».
«In che peccai, bambina?». Per Franco Buffoni tutto è riconducibile alla domanda semplice di Saffo. È quella che tutti/e gli/le adolescenti si pongono quando si sentono rifiutati per ciò che sono. La domanda di Saffo corrisponde al grido di ciascuno di noi che scopre l’esistenza del Caino sociale. Se il diritto può diventare abominevole e la giustizia può essere terribile, la poesia è sempre scomoda, «difficile» ha detto Fortini. Eppure, sin da Eschilo, solo la poesia può fermare la danza macabra della negazione e della vendetta, trasformare le orrende Erinni in benevole Eumenidi.