La delega alla macchina è una tentazione dei nostri tempi e il mondo della giustizia non fa eccezione. Ne parlano Antoine Garapon e Jean Lasségue nel libro La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà (Il Mulino, pp. 279, euro 28), volume intenso, denso e complesso. L’operazione editoriale è completata dalla bella prefazione di Maria Rosaria Ferrarese, che introduce l’edizione italiana, facendo il punto sulle questioni scottanti e ineludibili poste dal famoso giurista Garapon, supportato dall’epistemologo Lasségue che compendia il lavoro con un approfondimento sulla rivoluzione grafica.
Il libro si apre con un’analisi del passaggio dalla scrittura a stampa a quella digitale, una nuova testualità di natura logica. Impossibile restituire la ricchezza delle argomentazioni presenti nel volume, ma è appassionante analizzare alcuni dei nodi argomentativi più sfidanti. La digitalizzazione di tutte le informazioni disponibili, comprese quelle di carattere giuridico – sia come leggi scritte, sia come giurisprudenza – è condizionata all’assunto sistemico che sia possibile riprodurre tutto quello che è necessario per ricostruire la capacità di decisione giuridica, nel contesto informatico.

LA SCRITTURA DIGITALE, cioè, sarebbe un nuovo tipo di scrittura che porta alle estreme conseguenze la rivoluzione grammaticale delle lingue alfabetiche, nelle quali ciò che viene riprodotto è il singolo suono e non la rappresentazione del significato, come invece avviene in quelle ideografiche. La scrittura digitale eliminerebbe qualsiasi dimensione simbolica dal proprio funzionamento, riferendosi esclusivamente alla capacità di manipolare simboli definiti univocamente, attraverso l’uso di regole fissate, finite e inequivocabili.
Le lingue naturali, comprese quelle alfabetiche, mantengono relazioni plurali tra significanti e significati. Tale collegamento permette a una parola di avere correlazioni anche ambivalenti e stratificate con i suoi significati variabili e di manifestare una dimensione metaforica e simbolica per veicolare il senso complesso di un concetto o di un oggetto, a cui il significante associa il proprio carattere materiale.
La rivoluzione informatica invece rinuncerebbe completamente al rapporto con questa dimensione simbolica per concentrarsi esclusivamente sulle possibilità della manipolazione dei caratteri senza riferimento.

IL MONDO ESTERNO – confuso e molteplice – che fa capolino nella lingua naturale, nella sua ricchezza, nella sua dinamicità collettiva, sarebbe completamente tagliato fuori dalla rivoluzione digitale, che si impone per il suo carattere privo di riferimento all’esterno, sul quale però non rinuncia a intervenire.
Il progetto della giustizia digitale, analizzato nel volume, sembra voler salvare i giudizi dall’umanità con il suo carattere soggettivo e parziale. La giustizia predittiva, infatti, si propone di annettere il diritto a causa della sua capacità di contenere in sé tutta la giurisprudenza e di valutare i comportamenti umani, attribuendo loro la possibilità di costituire un’anticipazione di eventi futuri.

Come suggeriva Hannah Arendt in Vita Activa (1958), la scienza moderna si è sviluppata ponendo la ragione scientifica fuori dal mondo sensibile che si sforzava di comprendere e imponendo la rinuncia all’affidabilità dei sensi e della percezione rispetto alle tecniche di misurazione dei fenomeni fisici. Allo stesso modo, la scienza dei dati vuole fare a meno della ragione umana: la certezza scientifica dell’analisi dei dati non dipende dai singoli individui, ma dalla possibilità di incorporare le loro capacità cognitive nel complesso sistema algoritmico che esercita l’interpretazione.

TALVOLTA GLI AUTORI immaginano la morte del simbolico, rispetto all’avvento della rivoluzione digitale, ma in realtà si tratta di uno spostamento, che anche loro a tratti riconoscono, parlando del mito della delega alla macchina. Il simbolico non è morto, ma alla macchina – incaricata di sostituire le nostre decisioni, non solo giuridiche – si attribuisce maggiore affidabilità ed efficienza, perché si nutre del riconoscimento di una nuova istanza di verità e fiducia, dovuta alla sua potenza artificiale.
Un mito è costituito di simboli e di una triangolazione con un’autorità capace di fondare un nuovo regime normativo: per esempio il codice del software, coi suoi sacerdoti tecnici, al posto del testo di legge. Se il processo arrivasse alle sue estreme conseguenze si interromperebbero le interpretazioni, proprie della funzione giuridica, perché nel codice informatico non ci sono parole. La ricerca di correlazioni tra dati, sostituita all’ermeneutica, giuridica e non, usa gli algoritmi come prassi, senza spiegazione, senza responsabilità e senza contraddittorio.

LA DIMENSIONE SIMBOLICA del rituale giuridico e della decisione del giudice verrebbe sostituita da un sistema che riorganizza la vita collettiva. L’elisione del simbolico prelude, secondo gli autori, a una eliminazione ancora più problematica: quella della politica, da loro identificata, forse con troppa leggerezza, con lo stato. La politica fatta di decisioni prese a partire da scelte degli individui che, proprio in virtù della loro soggettività e per essere situati in un contesto, determinano l’agire in situazioni di incertezza e rendono possibile la convivenza, l’opposizione e la critica. Che succede se lo sguardo sulla società avviene fuori dallo spazio e non è attribuito a una soggettività giuridica che si assume la responsabilità delle scelte?
Nessuno lo sa. Gli autori descrivono un mondo in mutamento in cui vecchia legittimità giuridica e nuova giustizia digitale coesistono. L’invito è a elaborare strategie su come incorporare il software nel diritto senza abdicare alla logica della testualità, del rituale e dell’incarnazione. Uno dei pregi decisivi del volume è la chiara definizione di un campo comune di lotta tra diritto e tecnologia: è in atto lo scontro su quali attori abbiano la legittimità di governare la società.
Il processo è in corso, anche se talvolta le argomentazioni adottate adombrano una pericolosa soglia deterministica, che ipotizza l’avvento incontrollabile di un nuovo sistema. C’è ancora spazio per l’agire politico, per la vita activa di Arendt, ma non c’è molto tempo. Le scelte sull’uso della tecnologia sono l’orizzonte più politico del presente.