Le regole che l’Unione europea sta per approntare in ambito investimenti «green» sono sotto assedio dai gruppi di interesse che cercano un ruolo nella sostenibilità ambientale. Tra questi c’è anche l’industria nucleare e quella del gas.

Vediamo come questo sia possibile, chi lo permette e con quali conseguenze. La presenza di una certa confusione «pilotata» in cui ci troviamo in tema di sostenibilità ambientale è sconfortante e pericolosa. Il risultato si riflette in una dicotomia tra proclami ed azioni riguardanti la lotta al cambiamento climatico, ed in questa confusione ci si infila chiunque, sperando in un seconda vita (o terza).

Il direttore generale dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, Fatih Birol, afferma che gli investimenti per rilanciare l’economia continuano a finanziare soprattutto le fonti fossili, con un consumo di petrolio crescente che si avvia a superare la barriera dei 100 milioni di barili al giorno. Neanche la pandemia ha potuto far diminuire le emissioni di CO2 e neppure la decisione di un taglio delle emissioni per il 2030 del 55% rispetto ai livelli del 1990.

In Italia la quasi totalità (20 miliardi di euro) di sussidi ambientalmente dannosi sono incentivi dati alle fonti fossili, nonostante i proclami e gli impegni presi per la loro riduzione.

Il Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi redatto dal Ministero dell’Ambiente (ora MiTE), doveva essere funzionale ad un loro riordino all’interno della riforma del fisco di recente discussione, cosa mai avvenuta. Eppure la loro eliminazione, insieme ad una seria carbon tax, potrebbe finanziare lo sviluppo delle fonti rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica del settore industriale, oppure ridurre il cosiddetto cuneo fiscale del lavoro «qualificato» impiegato nei settori meno energy-intensive per favorire la transizione ecologica. C’è chi ricorda che il nostro Paese si era impegnato con l’Accordo di Parigi per la rimozione di tali sussidi entro il 2025. Oltre tutto, tale aspetto non sembra essere trattato adeguatamente nella versione di questi giorni del Recovery Plan.

COME SE NON BASTASSE, UN ULTERIORE OSTACOLO nel percorso verso la decarbonizzazione, si riferisce ad una Commissione Europea che non riesce a decidere sull’esclusione del nucleare e addirittura del gas dalla «tassonomia verde», la classificazione degli investimenti considerati sostenibili. E rinvia all’estate la sua decisione su tali aspetti, cedendo alle pressioni dei Paesi dell’Est, del Nord e della Francia e delle loro industrie.

IL JOINT RESEARCH CENTRE, THINK TANK interno della Commissione, ma niente affatto indipendente perché a servizio della politica e dei suoi interessi, aveva detto che «la comparazione degli impatti di varie tecnologie di generazione di elettricità, come gas, olio, rinnovabili e nucleare dimostra che gli impatti dell’energia atomica sono per lo più comparabili con quelli delle rinnovabili, per quanto riguarda gli effetti non radiologici». Una conclusione che fa discutere perché, anche se per le emissioni climalteranti il nucleare ha uno scarso impatto, non così è per i problemi ambientali, in termini di smaltimento sicuro delle scorie.

DIVERSO E’ IL DISCORSO SUL GAS NATURALE, indicato dall’oil & gas come carburante verde (!) in quanto elemento di transizione verso la sostituzione di fonti più inquinanti come petrolio e carbone. Da più parti viene detto che non è certo possibile obbligare Francia e Germania ad abbandonare le loro strategie energetiche basata su nucleare e gas, ma sicuramente deve essere possibile evitare che queste vengano finanziate con soldi pubblici di una Europa che si è impegnata in un processo di decarbonizzazione.

E’ IMPORTANTE SAPERE CHE LA TASSONOMIA verde indica per essere ammessi ai finanziamenti verdi la valutazione di sei obiettivi, due climatici (mitigazione del riscaldamento globale e adattamento alle sue conseguenze), e quattro ambientali: la transizione all’economia circolare (riuso o riciclo dei materiali e riduzione della produzione di rifiuti); la protezione dell’acqua e degli ambienti acquatici; la prevenzione e il controllo dell’inquinamento di aria, acqua e suolo; la protezione e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi. La classificazione considera in che misura un’attività economica che voglia essere qualificata come sostenibile contribuisca al raggiungimento di almeno uno dei sei obiettivi, senza però danneggiarne nessuno degli altri cinque. Si tratta di cosa di non poco conto visto che in definitiva ciò significa poter accedere a finanziamenti consistenti.

RIMANE LA DOMANDA DI COME SIA POSSIBILE poter assegnare finanziamenti green ad una fonte fossile ritenuta la maggiore responsabile del cambiamento climatico. E’ l’apoteosi del greenwashing inteso come rivendicazione ingannevole di qualità ecologiche inesistenti. L’obiettivo è quello di permettere all’industria fossile di giocare ancora una volta un ruolo principale nel prossimo ciclo di investimenti infrastrutturali di medio-lungo termine prima che il percorso verso la neutralità climatica al 2050 la metta completamente fuori gioco.

IN QUESTA OTTICA RISIEDE LA RICHIESTA di alcuni settori di continuare a finanziare e costruire gasdotti, che un giorno potrebbero forse essere trasformati in infrastrutture per il trasporto dell’idrogeno, e investire ancora in centrali a gas, nel processo di sostituzione del carbone, magari considerando il ruolo necessario del gas come riserva di capacità per garantire la continuità della generazione di energia elettrica rispetto alla intermittenza delle fonti rinnovabili. Oppure l’ultima occasione per invertire la tendenza ormai consolidata nei mercati finanziari nei confronti del nucleare e dei suoi alti costi non competitivi tra le fonti di energia, anche se è davvero difficile dimostrare il principio che impone di non causare danni significativi agli obiettivi ambientali della tassonomia, scorie e consumo di acqua prima di tutto, oltre che grandi impatti sull’ambiente a causa delle loro dimensioni.

ALTRO ESEMPIO E’ QUELLO DEL FORTE INTERESSE per abbassare la soglia da rispettare perché sia considerata sostenibile la produzione di idrogeno «blu», quello prodotto da fonti fossili (ma con l’uso del cattura della CO2 emessa durante il processo), oppure da elettricità non rinnovabile (in particolare quella da fonte nucleare) prelevata dalla rete. Per essere ammesso nella tassonomia, l’idrogeno blu dovrà ora essere prodotto con una riduzione del 70% delle emissioni (ma ne rimane in atmosfera ancora il 30%!), rispetto a quanto viene emesso con l’uso di una quantità equivalente di energia fossile. Inutile dire l’importanza dell’intervento su tale decisione della European Hydrogen Alliance, asservita completamente ad certa industria, che vuole continuare a finanziare nonostante tutto. Stiamo assistendo ad una transizione ecologica davvero poco ecologica.

* Prorettore Sapienza Università di Roma