Per capire le convulsioni della politica basta poco: sta per chiudersi la finestra che potrebbe consentire elezioni anticipate entro il primo semestre del 2021 (da agosto scatterà il semestre bianco). Senza questo deterrente, si aprono le danze, con grande giubilo di tutti coloro che vogliono mettere a frutto il loro piccolo o grande potere di veto e di ricatto: e in questo clima, uno come Renzi, si sa, ci sguazza; ma non solo lui.

Dentro il M5S emergono tutti i guasti prodotti dall’assenza di chiare regole democratiche e tutti gli (umanissimi) motivi di risentimento che si sono accumulati (perché lui/lei ministro, e io no? chi l’ha deciso?). E lo stesso accade per le mille cordate e sotto-cordate che si agitano nel Pd. Ma non mette conto dedicare molte energie e tempo a questa apoteosi del retroscenismo. Occorre andare oltre la superficie. A ben guardare, tutto nasce da un grande vuoto: il deficit di politica e l’assenza di partiti degni di questo nome.

Si prenda il caso del Recovery Plan e della sua gestione. Nei giorni scorsi, il vicesegretario del Pd Andrea Orlando aveva detto una cosa saggia, e non scontata: non è possibile che un piano di investimenti di questa portata possa essere gestito dai “giuristi” e dai “consiglieri di stato” che affollano i gabinetti ministeriali, occorrono altri specialismi, ingegneri, sociologi, urbanisti.

Del resto, basta aprire un manuale di “analisi delle politiche pubbliche”, per capire come il “ciclo di vita” di una politica non si riduce certo all’atto normativo iniziale che stabilisce una “legge”: ci vogliono obiettivi, controlli di gestione, strumenti attuativi, monitoraggio, valutazione dei risultati, ecc. E ci vogliono persone capaci di fare tutte queste cose. Un tema decisivo, quello della debole capacità progettuale e della scarsa capacità di spesa della macchina pubblica italiana (vedasi i fondi europei), su cui già nei mesi scorsi aveva richiamato l’attenzione Laura Pennacchi, con una discussione aperta su Collettiva, il periodico online della Cgil.

La qualità del chiacchiericcio politico-giornalistico è davvero sconfortante. Da quando si è cominciato a parlare dei famosi 209 miliardi, è stato tutto un lanciare allarmi: “Manca una visione”, “L’assalto alla diligenza”. In realtà, l’azione del governo è stata sì lineare, ma politicamente debole: il compito di preparare il piano e di discuterlo con la commissione europea è stato affidato al Ciae (comitato interministeriale degli affari europei), coordinato dal ministro Amendola. Tutti i ministeri hanno mandato le loro carte (grande scandalo perché si arrivava a 600 miliardi: che gran sorpresa!) e il Ciae ha poi scremato i progetti e organizzato il piano secondo le direttive europee.

Si giunge così all’ultima fase. Che si dovesse prevedere anche la creazione di specifiche “unità di missione” sembrava cosa ovvia: nel gergo burocratico si chiamano così delle strutture amministrative, create ad hoc, che hanno il compito di seguire/eseguire un obiettivo. Tutti in governi, in passato, vi hanno fatto ricorso. E che ci possano essere anche dei manager esterni a fare questo lavoro è cosa altrettanto ovvia. Apriti cielo! Si è arrivati a parlare di “esproprio” della politica, quando è del tutto ovvio che la scelta dei progetti e l’allocazione delle risorse era e rimane una responsabilità della politica.

E qui casca l’asino, come si suol dire. Lasciamo da parte l’evidente strumentalità di molte critiche: il problema è che il governo si è limitato a fare il suo, ma è mancata e manca la politica; e mancano gli unici soggetti che dovrebbero farla, i partiti. È del tutto evidente che un piano di questa portata avrebbe bisogno di essere discusso e condiviso nel paese, capito e sostenuto dall’opinione pubblica, coinvolgendo i sindacati e le parti sociali, i poteri locali e il tessuto associativo. Altrimenti, tutto rischia di restare un esercizio di potere tecnocratico.

Ma si può e si poteva chiedere (solo) al governo di fare tutto questo? Certo, il governo poteva evitare diversi errori, persino delle evidenti ingenuità: ad esempio, lasciare che si accreditasse l’idea di una qualche Spectre che esautora la politica. Ma sono altri i soggetti che dovrebbero inscrivere entro una visione politica e culturale ciò che altrimenti rimane solo un mero elenco di progetti, affiancati da una cifra.

Sono i partiti che dovrebbero assolvere questo ruolo: connettere le Politiche alla Politica; ed essere presenti nei tanti luoghi in cui si costruiscono relazioni con gli attori sociali. Sono i partiti che dovrebbero svolgere quel ruolo di interfaccia tra lavoro nelle istituzioni e lavoro nella società che sarebbe loro proprio. Ma i partiti, semplicemente, non ci sono, o non sembrano più in grado di fare queste cose. Bisognerà tornare sul tema; ma qui possiamo intanto fare una prima diagnosi.

Il M5S: l’idea del partito digitale, e di una democrazia immediata gestita su una piattaforma, è fallita; così come la pretesa di tenere insieme forze disparate sulla base di un’identità politico-culturale debole o inesistente. Il Pd: è un partito che – così com’è – è di fatto ingovernabile, una confederazione instabile di potentati; un partito retto non da un modello democratico-rappresentativo ma da un regime anarchico-plebiscitario in cui, sotto l’ombrello di un segretario eletto da una base indistinta, vivono e si agitano vassalli e valvassori, ciascuno con il proprio piccolo o grande feudo da difendere.

E infine, la sinistra fuori dal Pd: non pervenuta. Fallito il progetto di Leu (e forse non poteva non fallire, perché troppo diverse erano le prospettive strategiche dei vari protagonisti), si rimane nel limbo: c’è chi pensa non vi siano reali alternative al rientro nel Pd, ma aspetta e spera, perché obiettivamente non ci sono le condizioni perché tale operazione possa avere un minimo di credibilità politica (e il Pd nulla fa perché ciò sia possibile).

E c’è chi si arrabatta attorno a formule vaghe (la “rete”, il “campo largo”), pur di sfuggire al nodo cruciale, che significa rispondere ad una domanda: siamo in grado, e come, di costruire un partito, e un partito degno di questo nome? Se ne può fare ancora a meno?