La debole ripresa e la svolta che non c’è
Ue Il rapporto della Commissione sottolinea il ritardo italiano, ma il governo è cieco e forse anche sordo
Ue Il rapporto della Commissione sottolinea il ritardo italiano, ma il governo è cieco e forse anche sordo
La Commissione Ue, inconsapevolmente, conferma la debolezza dell’economia europea. La ripresa si intravede, ma rimane debole. Alcuni paesi crescono di più; altri sono in linea con la media del 2% per il 2016; altri continuano a rimanere fanalino di coda.
L’Italia consolida il suo triste primato e cresce sempre meno dell’area euro. La minore crescita dell’Italia rispetto all’Europa è di un punto percentuale di Pil nel 2015 e di 0,5 punti nel 2016. L’Italia, dall’ingresso dell’euro, ha cumulato un ritardo di oltre 13 punti di Pil, ovvero una minore crescita di quasi 200 miliardi.
Per dirla tutta, la crescita del Pil tra il 2003 e il 2014 è negativa di 3 punti, cioè siamo più poveri rispetto al 2003, e qualcuno si ostina a sostenere che l’Italia non è più un problema per l’Europa, ma la soluzione.
Le previsioni economiche della Commissione europea dicono qualcosa di più. Il vicepresidente Dombrovskis, responsabile per l’euro e il dialogo sociale, ha sostenuto: «Le previsioni economiche odierne indicano che l’economia della zona euro prosegue sulla via di una crescita moderata. Questa crescita è sostenuta in gran parte da fattori temporanei quali i bassi prezzi del petrolio, la maggiore debolezza del tasso di cambio dell’euro e la politica monetaria accomodante condotta dalla Bce».
Sono due le informazioni fondamentali. La prima è legata all’inconsistenza delle politiche europee per la crescita della Commissione. Quel poco di agio politico ed economico arriva dalle politiche della Bce. La Commissione rimane un attore austero e triste, incapace di prefigurare qualsiasi azione di politica economica. La Bce non è un campione di buone politiche, ma all’interno del proprio mandato, vincolato da rigide norme, è riuscita a fare quel che poteva. L’altro e non banale aspetto è legato al contenuto della crescita: è dettata da fattori temporanei e non riproducibili. Se consideriamo la bassa (negativa) crescita dei paesi Brics e la contrazione del commercio internazionale, puntare sulla domanda estera per la crescita economica è, giustappunto, un azzardo.
Gli appunti della Commissione diventano stringenti per l’Italia. Nelle previsioni economiche troviamo il problema di struttura del Paese. Gli investimenti fissi per il 2015-‘16 e ‘17 sono visti in forte rialzo: rispettivamente più 1,2%, più 4% e più 4,8%, mentre i beni strumentali crescono del 4,5% nel 2015, 6,5% nel 2016 e 7,3% nel 2017. Non credo sia possibile – troppo grande la differenza dagli anni precedenti nel mentre si è ridotta la base produttiva del 25% -, ma il punto è un altro. Gli investimenti sono fondamentali per far ripartire il paese, così come la domanda interna, ma analizzando la dinamica di import ed export si vede chiaramente che l’import cresce più dell’export.
Se consideriamo i consumi privati in crescita – più 1,4% per il 2016 – e la dinamica delle importazioni, è evidente che investimenti e domanda interna sono soddisfatte da maggiori importazioni. In altri termini, maggiori consumi e investimenti non sono sinonimo di crescita. Infatti, il tasso di disoccupazione rimane saldamente al di sopra dell’11%. Se aumentano consumi e investimenti, soprattutto quest’ultimi, nel mentre la disoccupazione si riduce dello 0,8% tra il 2016 e il 2017, vuol dire che non riusciamo a creare lavoro nemmeno dove si investe, per la semplice ragione che il Paese ha perso capacità produttiva proprio nei beni strumentali. Un segnale di declino, con tutte le sue ricadute occupazionali e di prospettiva economica. In questo settore, infatti, il salario, il valore aggiunto per addetto e la produttività sono più alti della produzione nei beni intermedi e di consumo.
Le politiche di bilancio pubblico non aiutano. Al netto dell’incomprensibile utilizzo della flessibilità europea sugli immigrati – 3 miliardi di euro utilizzati per ridurre le tasse alle imprese che non producono ricchezza quanto le imprese europee -, non ci sono investimenti, ma solo rinvii. Il vero nodo sarà la prossima legge di stabilità – 2017 – che dovrà non solo disinnescare altri 35 miliardi di clausole di salvaguardia, ma non potrà più farlo aumentando il deficit. Questa Legge di Stabilità doveva essere di svolta. La flessibilità è una tantum. Il rapporto della Commissione sottolinea il ritardo italiano, pensate alla disputa sulla riduzione delle tasse tra lavoro e immobili, ma il governo è cieco e forse anche sordo.
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