Sulla sinistra una parete color pergamena, piena di libri e pagine del medesimo tono. In centro due bacheche di vetro trasparente, aperte sul dietro, che racchiudono tavoli, sedie. In alto, in cima al vetro, troneggia, austero, un corvo nero pece. Biennale di Venezia, estate 2004. Torinodanza Festival, Carignano, novembre 2016. Bones in Pages, titolo di Saburo Teshigawara nato nel 1991, riallestito nel 2003, e ora, rinato per la terza volta.

In scena oggi come in passato Saburo, fondatore a Tokyo della compagnia Karas (che vuol dire corvo), artista dalle molteplici sfaccettature, autore di installazioni, danzatore e coreografo, regista di film sulla danza, di scenografie, luci, costumi. Classe 1953, non ha mai smesso di vivere la scena. Anni fa ci disse: «Se gli uccelli smettessero di volare, cadrebbero. Nella danza è lo stesso: dobbiamo fare un grande sforzo per continuare a vivere nel movimento, per stare sulla scena. Non mi interessa realizzare una forma, ma un contrappunto, un incontro con ciò che ci circonda, mobile come la curiosità che non è mai stabile». Un’arte che essendo legata all’istante si rinnova continuamente, come il corpo, che anche quando invecchia vive il mutamento.

Bones in Pages cresce con Saburo, che lo danza da 25 anni. Curioso rivedere un pezzo culto dell’artista giapponese a distanza di dodici anni, come è accaduto a noi. Alcuni frame sono già lì nella memoria, pronti a rincollarsi sul presente, altri sono sfuggiti e come le tessere di un puzzle trovano il loro nuovo posto. Cosa è uguale e cosa è diverso e soprattutto come noi, spettatori di diversa età e storia, lo viviamo? Ancora Saburo: «Guardare la danza vuole dire seguirla con il proprio respiro trovando il proprio tempo, il proprio movimento. Questo incontro dà consapevolezza al corpo, invitandoci a percepire quello che accade fuori di noi, nella società, nella natura. Se si perde questa capacità, si perde la percezione di ciò che ci circonda».

Il pezzo inizia con Saburo seduto a un tavolino coperto di schegge di vetro che riflettono ombre e luci sul volto. Bones in Pages procede per quadri accompagnati da sonorità magmatiche. Una danza che dà sfogo a orizzontalità e fluidità del movimento; una danza di attesa, una danza che scivola tra la pagine sulla parete, una danza che è il respiro della natura, dell’aria che sta tra la figura e la scena. Quando scompare Saburo ecco Rihoko Sato, danzatrice storica di Karas, un movimento fulminante nell’imprendibilità del flusso. Torniamo ancora a Saburo: «Non penso si possa davvero danzare soltanto utilizzando la memoria del corpo, il passato non basta. Per danzare ci vuole anche una sorta di azione spontanea legata all’istante. Non solo una reazione, ma un credo, una determinazione». Questo legame mobile, diverso per chiunque, tra memoria e istante presente è forse uno degli aspetti più fecondi e creativi della rinascita negli anni di titoli che appartengono allo spettacolo dal vivo. Ci siamo soffermati su Bones in Pages, ma potremmo parlare di molti altri pezzi e artisti che hanno messo in moto quest’alchimia tra presente e passato: in questi mesi Anne Teresa De Keersmaeker, a MilanOltre con Fase e Verklärte Nacht, a Romaeuropa con Rain; ancora a Romaeuropa Wim Vandekeybus con In spite of Wishing and Wanting, Sasha Waltz con Dido & Aeneas all’Opera di Roma.

E ancora al Covent Garden di Londra Wayne McGregor festeggia fino al 19 i suoi dieci anni come coreografo residente del Royal Ballet con la creazione Multiverse affiancata a un hit 2006 del suo percorso: Chroma. Perché un repertorio di un’arte come la danza non può mai essere museale. Cambiano i corpi dei danzatori, cambia la società in cui il pezzo rivive, cambia il pubblico, spesso gli interpreti, il coreografo si confronta con un altro se stesso. Pina Bausch l’aveva capito tanto tempo fa. Così oggi, che lei non c’è più, il suo repertorio non è perduto: a Wuppertal in questi giorni si danza Nefés e Palermo Palermo.