Oggi all’Istituto degli Studi Filosofici di Napoli si presenta il “Manifesto per la salute mentale”, la bozza iniziale di un progetto di revisione e trasformazione della cura psichica nel sistema nazionale della salute mentale. Il Manifesto è promosso dalla Società Psicoanalitica Italiana, dalla Psichiatria Democratica, dalla Società di Epidemiologia Psichiatrica, dall’Istituto Negri di Milano e dalla cattedra di Psichiatria dell’Università di Pavia che hanno curato la sua redazione. Ha avuto larga risonanza nel mondo della salute mentale ed è rivolto a tutti coloro che ci lavorano, alle forze politiche e alla società civile.

La prospettiva che esso delinea può essere riassunta nei seguenti punti principali. La difesa del diritto a una cittadinanza piena delle persone gravemente sofferenti, che è difesa della democrazia. Il superamento del regime monocratico, fondato sul modello biomedico, che domina, contrastato sul piano scientifico, ma politicamente potente, nel mondo della cura psichica riducendo i pazienti in macchine biologiche da aggiustare. L’affermazione di un pluralismo dialogante degli approcci terapeutici che riflette la grande complessità del rapporto tra i processi patologici e la parte sana, viva della materia psicocorporea della soggettività che resiste alla sua alterazione. Il fondamento del sistema della salute mentale nel territorio: ciò implica uno sforzo importante di re-integrazione culturale, sociale e lavorativa delle persone emarginate a causa della loro sofferenza e un’apertura delle unità operative alla comunità in cui sono inserite. La valorizzazione della ricerca epidemiologica e della prevenzione. L’umanizzazione della cura: lo smantellamento di un dispositivo terapeutico alienante basato sul legame impersonale tra dati di laboratorio e entità umane anonime, invisibili (che deprime curanti e curati) e la sua sostituzione con relazioni autentiche, soggettivanti fatte di desideri, sentimenti e di affetti.

La riduzione dell’essere umano alla sua biologia è frutto di un pensiero barbarico radicato nella nostra mente come pregiudizio che vede la vita come schema (supposto sicuro) di azioni calcolabili e ripetitive. In un passo di Fedone, Socrate chiarisce in modo esemplare ai suoi allievi che se le sue ossa, le sue innervazioni e le sue giunture mobili erano il mezzo che l’aveva collocato nella prigione in attesa della morte, piuttosto che condurlo alla fuga, non per questo erano la “ragione” (la scelta del meglio, mai riducibile a una “causa”) per cui aveva deciso di accettare la condanna a morte, invece di fuggire.
Il trattamento farmacologico, agendo sui circuiti nervosi, può ridurre e rendere tollerabile l’angoscia acuta, destrutturante.

Tutti gli interventi finalizzati alla cura della persona e della qualità della sua vita, incontrerebbero notevoli difficoltà senza la farmacoterapia. Nella direzione opposta la sola repressione del dolore svuota il campo dell’esperienza soggettiva, costruisce esistenze sedate, inespressive, appiattite sul bisogno e cronicizza un dolore sordo, invalidante.
L’essere umano è biologico, psichico, sociale, culturale, politico. Quando si ammala seriamene nell’anima (nella sua possibilità di dare senso, rappresentazione al suo essere, gettato dal suo desiderio di vivere, nel mondo) si deve prendere cura del suo corpo, dei suoi affetti, della capacità di trarre soddisfazione profonda dall’insieme delle sue relazioni.

La pretesa di porre rimedio a ogni malessere dell’individuo e della società mediante un algoritmo biologico, traducibile in una pillola miracolosa, è un’aspirazione totalitaria, segretamente fondata sulla costruzione di entità eugenetiche e nemica delle differenze e della democrazia.
Il destino della salute mentale è legato al destino della democrazia. La deregulation è iniziata dalle istituzioni della cura psichica in California quando Reagan ne era governatore.