«Quando nel 2014 sono arrivato al Museo Egizio di Torino eravamo in tredici. Oggi siamo in cinquantanove. Assieme alla squadra si sono moltiplicati anche i costi, sostenibili fino al lockdown. La nostra istituzione non può tuttavia assorbire lo shock economico causato dall’emergenza sanitaria. La strategia di radicamento portata avanti su tutto il territorio nazionale – solo gli studenti delle scuole che annualmente ci raggiungevano ammontavano a circa 290mila unità – si è dissolta all’improvviso», racconta al manifesto Christian Greco, direttore del secondo museo di egittologia più importante al mondo dopo quello del Cairo e del sesto più visitato in Italia nel 2019 con quasi 900mila presenze. «In momenti di massima affluenza come la stagione primaverile – continua Greco – partiva una visita guidata ogni sette minuti. Per conquistare questo risultato, era stata messa a punto una vera e propria macchina che dava lavoro a tantissimi professionisti. Nel momento in cui la macchina si arresta, anche gli introiti si fermano. Gli oneri, invece, permangono».

In che misura il numero di ingressi influisce sul budget del museo e come siete riusciti, negli ultimi cinque anni, a raggiungere l’indipendenza finanziaria?
La bigliettazione corrisponde al 68% degli introiti. Il resto lo guadagnavamo grazie agli eventi, alle mostre itineranti – attualmente abbiamo due percorsi espositivi chiusi presso il Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City e il Centro Cultural Banco do Brasil di San Paolo – e al bookshop.

Quali saranno i prossimi passi per superare la crisi?
Tornare innanzitutto all’articolo 9 della Costituzione e al nostro ruolo all’interno della società: siamo un’istituzione politica nel senso etimologico del termine e partecipiamo alla vita della comunità in cui siamo inseriti. Lo facciamo avendo ben presente il nostro obiettivo principale, che è quello della cura dei reperti.

Cura è una bella parola che va al di là della definizione di tutela…
Sì, è una parola latina meravigliosa da cui deriva curatore. Egli deve studiare il reperto, interpretarlo, attuare la diagnostica preliminare a qualsiasi intervento di restauro per poi poter pubblicare e comunicare l’oggetto. Curare un reperto significa anche non lasciare che esso cada in oblio. L’ indagine sui beni culturali, infatti, va difesa al pari della ricerca accademica.

Alcune critiche sono state mosse riguardo al grido d’allarme lanciato dal Museo Egizio sulla stampa. C’è chi dice che non è il pubblico a dover porre rimedio ai problemi finanziari dei privati…
Credo ci sia un fraintendimento. La nostra è una fondazione mista in cui il pubblico prevale sul privato perché oltre a due enti bancari ci sono il Mibact, il Comune e la Regione. Abbiamo un accordo trentennale (2004-2034, nda) con il Ministero, il quale vigila – attraverso le direzioni generali – sul nostro operato e nomina il presidente. Inoltre, lavoriamo sotto la supervisione della Soprintendenza. Di fatto, la Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino gestisce per nome e per conto dello Stato la collezione ma senza gravare sul contribuente. Al contrario, tutti i guadagni della bigliettazione sono stati finora reinvestiti in ricerca, restauri e didattica. Abbiamo rilanciato gli scavi in Egitto, a Saqqara e a Deir el-Medina, fondato una rivista double peer review in open access, avviato un processo editoriale encomiabile, assunto tantissimo personale soprattutto scientifico, tra cui 11 curatori supplementari e 5 restauratori. In un momento in cui non possiamo far leva sui visitatori, necessitiamo dunque di un sostegno economico.

Con quali modalità i luoghi della cultura, che sono anche luoghi di ricerca, possono migliorare la loro competitività?
Innanzitutto con la rivoluzione digitale. Abbiamo ora più che mai il dovere di ancorare il nostro patrimonio alla cittadinanza, rendendolo comprensibile. Per realizzare tale scopo servono strumenti innovativi che non riducano il tour virtuale a un surrogato della visita al museo che adesso non ci è concessa. La digitalizzazione deve affermarsi come mezzo di conoscenza, che permetta di vedere ciò che non sarebbe visibile nemmeno se fossimo difronte all’oggetto.

Un po’ quello che avete fatto con la mostra «Archeologia invisibile, momentaneamente esplorabile online
In questa mostra, infatti, convogliamo nel visitatore tutta quella serie di processi di ricerca che servono per assimilare la biografia di un reperto. Attualmente ci stiamo muovendo per potenziare il settore digitale, coinvolgendo oltre ad esperti di informatica figure quali psicologi, sociologi, filosofi e antropologi che ci aiutino a trasmettere l’agency dell’oggetto al soggetto anche in un contesto di non contiguità fisica tra le due parti.

Tour virtuale al museo

Nell’offerta digitale rientra anche un database relativo ai papiri in open access.
Si tratta di un progetto europeo intitolato Crossing Boundaries, grazie al quale mettiamo online frammenti di papiro inediti, di cui forniamo anche la trascrizione, la traslitterazione e la traduzione. Molto spesso ci si dimentica che il museo, oltre a magnifiche opere d’arte, possiede un notevole patrimonio documentario, nella fattispecie l’archivio amministrativo che proviene dal villaggio di Deir el-Medina, uno dei più importanti – fra quelli sopravvissuti – dell’antico Egitto. Una memoria indispensabile per capire com’era regolamentata la vita all’interno di questa città fondata all’inizio del Nuovo Regno per coloro che erano destinati a lavorare nelle necropoli della Valle dei Re e delle Regine.

Inoltre, siete stati i primi, in Italia, a rendere fruibile la collezione del museo con la licenza creative commons 2.0. Cosa vi ha spinto a una scelta ancora così poco praticata?
I musei, le collezioni, gli archivi non appartengono a chi ha la fortuna di occuparsene. Il nostro compito, al contrario, è quello di offrire un servizio alla comunità, da quella scientifica fino ai bambini. In questo senso, al di là della gestione, il Museo Egizio è davvero un ente pubblico.

Quali attività sono proseguite durante la chiusura?
Il museo ha assicurato una guardiania armata 24 ore su 24. Da remoto, abbiamo fatto le verifiche sulle condizioni tecniche per il mantenimento di temperatura e umidità nei locali. Ogni giorno due conservatori si recano al museo e realizzano un condition report affinché venga costantemente monitorato lo stato di conservazione dei reperti e possano eventualmente essere predisposti interventi immediati. La comunicazione continua a distanza, così come la ricerca. I curatori lavorano sia sulle pubblicazioni scientifiche che per produrre contenuti destinati al pubblico. Il collection management si impegna a portare a termine quei compiti che spesso rimangono indietro. Abbiamo appena finito di effettuare 1800 foto di amuleti, i cui dati grezzi dovranno essere elaborati e rifiniti. Certo, in questo momento saremmo dovuti essere sullo scavo di Saqqara ma restiamo vicini all’Egitto con un progetto internazionale che si chiama Transforming the Egyptian Museum of Cairo di cui siamo capofila e al quale partecipano il Louvre, il British Museum, l’Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino e il Rijksmuseum van Oudheden di Leiden.

Secondo le ultime disposizioni del governo, i musei potranno riaprire dal 18 maggio. Come vi state organizzando?
Durante questo periodo, abbiamo collaborato con il Politecnico di Torino per studiare un protocollo di sicurezza. Oltre al termoscanner, all’utilizzo obbligatorio della mascherina durante le visite e alla presenza di erogatori di gel disinfettante in varie parti del museo, valutiamo un distanziamento sociale che si aggira attorno ai 40 metri quadrati per ciascun utente.
Attraverso la prenotazione online saremo in grado di regolamentare gli ingressi, che saranno ridotti rispetto ai 1600 giornalieri. Forse ci saranno dei controlli elettronici e gli operatori di sala dovranno vigilare affinché non si creino assembramenti. È una nuova sfida, per dare a tutti la possibilità di tornare nelle nostre sale senza temere per la propria salute e potendosi concentrare sulle storie che i reperti hanno da raccontare.

È un’occasione per riflettere a un turismo più sostenibile?
Per quanto ci riguarda i numeri erano adeguati anche prima dello scoppio della pandemia ma è chiaro che adesso il modello dovrà cambiare. Abbiamo l’opportunità di radicare il patrimonio all’interno della popolazione locale. Ci sono infatti segmenti di visitatori che grandi istituzioni urbane come la nostra faticano ad intercettare, ad esempio la fascia che va dai 18 ai 35 anni, persone che non tornano in uno spazio culturale dai tempi della scuola. Il mio sogno è che tutti i torinesi riscoprano l’Egizio.