Non sempre ci ricordiamo che la parola «tecnologia» è legata alla téchne, ovvero all’arte come «perizia del saper fare»; e che il termine «scienza», nei nostri tempi connesso soprattutto al «sapere scientifico», originariamente raccontava della «conoscenza» in generale.

Agli inizi del Seicento un grande italiano per metà inglese di nome Giovanni (John) Florio, traduttore in inglese di Montaigne e Boccaccio e amico di Giordano Bruno, ebbe a dire che per il Nolano «dalla traduzione nasceva ogni scienza». Florio intendeva il termine «traduzione» in senso lato, non solo come passaggio da una lingua a un’altra, ma come comunicazione, trasformazione, condivisione. E parlava di scienza come di sapere.

IL SUO SODALE BRUNO era un umanista a tutto tondo, al contempo letterato e poeta, drammaturgo, scienziato, astronomo, e mago. La sua concezione di scienza rispondeva a un insieme indistinto di «saperi», come usa dire oggi. E tali «saperi», tra cui non esistevano frontiere, avevano senso soltanto nel loro essere comunicati.
Nei nostri giorni difficili, ai docenti di ogni ordine e grado è demandato di comunicare, di mettere in comune, e dunque di tradurre e di tradursi, facendo ricorso alla tecnologia. C’è chi si mostra ostico o scettico per il rischio di perdere quel contatto che è poi alla base dello scambio di idee e contenuti, e chi abbraccia quest’opzione come la panacea di tutti i mali, vedendone persino dei profili di risparmio per enti e istituzioni, sul lungo termine.

SE CERTI SAPERI SCIENTIFICI, talvolta per una loro percepita «freddezza» di «scienze dure», sono da più tempo esposti alla necessità di funzionare anche a distanza, non sempre questo vale per quelli umanistici: per l’insegnamento della letteratura, ad esempio – se mai l’estro libero della creatività e dell’interpretazione si possano davvero insegnare a qualcuno.
Pare, quella di questi giorni, una vera sfida, quasi più per noi che ci occupiamo di materie umanistiche che per gli scienziati. Eppure, non possiamo non ricordare che anche la letteratura da sempre funziona a distanza. Shakespeare, Dante, Virgilio e Lucrezio, ci parlano dall’abisso di secoli remoti; comunicano, sepolti nel loro silenzio, grazie alla mediazione di generazioni di critici, filologi, attori, che gli hanno prestato la parola e hanno fatto, per loro, e per noi, da schermo riflettente, vale a dire da schermo, che come la mente, sa riflettere.

PERCEPIAMO LE OPERE dei grandi classici sempre e soltanto come echi, anche quando li abbiamo sottomano, e questo per via dell’innegabile distanza che c’è tra testo e testa. Ogni idea, ogni scoperta, ogni rivelazione creativa, sono sempre una voce che proviene da oltre il muro. E nei tempi di eccezione che attraversiamo, in cui docenti comunicano con alunni e studenti da oltre il muro di uno schermo buio – uno schermo che s’illumina talvolta soltanto di occhi speranzosi ma spauriti – l’insegnamento del passato può certo venirci in soccorso.

I PENSATORI e gli intellettuali che chiamiamo umanisti non credevano alle distanze tra i saperi, né a quelle tra le persone; erano consapevoli che nulla è certo, che tutto è ammantato dall’ombra perenne del dubbio, e che viviamo in uno spazio di cui siamo al contempo il centro e la periferia. Ma i dubbi, e questo vale per la scienza ma anche per le lettere, sono fatti per esser fugati, come ombre di nubi all’orizzonte, se ci spostiamo da un punto all’altro dell’infinito cerchio della nostra esistenza. Le ombre se ne andranno, le nubi torneranno.

L’umanesimo vero non sottolineava l’esistenza di confini, perché la mente, come forse anche internet, e di certo alla stregua dell’universo intravisto nella sua infinitudine da alcuni rinascimentali, di confini proprio non può averne. Da professore mi trovo, ogni settimana, a insegnare diverse ore argomenti disparati che vanno dalla letteratura inglese alle tecniche del giornalismo, dalla teoria della traduzione alla sua pratica; e una nozione, non letteraria, che sta facendo sempre più spesso capolino nei discorsi con i cari e pazientissimi studenti, è quella di materia oscura; ossia, quella porzione fondamentale dell’universo che non è scura perché buia, ma è oscura perché trasparente. Non la vediamo, eppure c’è; non la misuriamo, ma influisce sullo spostamento delle galassie.

ECCO, LA CULTURA, nel suo essere mediazione, vale a dire, schermo e confine invisibile, è come la materia oscura: non la vediamo fisicamente, non ne percepiamo tangibilmente le frontiere, ed è proprio per questo che ci cambia la vita. Un’operazione ben riuscita in una sala operatoria è una poesia; una sconfitta inattesa in corsia, una tragedia; una persona che torna a respirare, una divina commedia.
La tecnologia non è appannaggio della scienza, ma del sapere. E quando torneremo al fondamentale contatto diretto, tangibile, visibile, con i nostri studenti, questa consapevolezza dovremo tenerla bene a mente, scienziati e umanisti tutti.