La morte del classico è di per sé un grande classico. Ciclicamente ciò che è ritenuto classico viene considerato morto. Già nel I sec. a. C. lo storico Sallustio deplorava la morte di quello che per lui era classico, cioè il passato repubblicano di Roma. In realtà, i classici evolvono nel tempo; moribondi, poi si riprendono perché, in fondo, resistono all’usura della vita, mutando.
Ma a che serve studiare i classici e, più in generale, l’umanistica? Le priorità sono altre: la scienza, le nuove tecnologie.

Questa opposizione, tuttavia, mi convince molto poco. Partirei da un dato numerico. Negli anni Venti del XIX secolo l’umanità raggiunge il miliardo di persone; negli anni Settanta i tre miliardi. Negli ultimi cinquant’anni siamo quadruplicati. La velocità con ci siamo estesi sul pianeta è aumentata vertiginosamente in un attimo. Di conseguenza, qualunque tipo di fenomeno umano ha preso un’accelerazione notevolissima, producendosi su una scala incommensurabile rispetto al passato. E noi arranchiamo. A volte quindi percepiamo come morte di qualcosa a cui teniamo un semplice mutamento di linguaggio. Mi spiego meglio. Credo che nel XXI sec. dovremmo decolonizzare il nostro immaginario da certi schemi di pensiero, che pur sono stati utili per lo sviluppo della modernità, come l’idea della divisione tra saperi umanistici e scientifici che, di fatto, risale al VI sec. d. C., quando si comincia a parlare delle discipline del trivio e del quadrivio, a cui si è aggiunto, con la diffusione del metodo sperimentale nel XVII sec., il ragionamento per categorie. Continuando a aderire a questi schemi oggi, rischiamo di non cogliere i nessi esistenti tra i diversi ambiti del sapere, precludendoci la possibilità di una migliore comprensione del reale ipercomplesso in cui viviamo.

Ha ancora senso parlare di scienze umane come opposte a scienza e tecnologia? Io penso di no. L’umanesimo non è altro che un approccio al reale non fondato solo sul numero e sul dato ma anche sulla parola, che permette di fare di numeri e dati conoscenza e coscienza.
Dal canto suo, la tecnologia è uno strumento, un prolungamento della nostra mano. Esemplarmente, essa oggi permette di espandere le conoscenze umanistiche, allargando a una vasta platea informazioni che non molto tempo fa da erano di difficile reperimento. È quello che accadde con l’introduzione dei caratteri mobili alla fine del XV sec. Se prima il libro era copiato a mano e i saperi viaggiavano lentamente e in ambiti ristretti, l’introduzione dei caratteri mobili democratizza i saperi, fecondando Umanesimo e Rinascimento.

Quindi la tecnologia non è un male, come non lo sono gli studi umanistici e classici. Sbagliano gli scientisti che credono che l’umanistica sia solo un insieme di ubbie e sbagliano gli umanisti che demonizzano la tecnologia. Sono due elementi dell’humanitas prodotti dell’essere umano e, nel momento in cui allargano l’accesso al sapere, fanno qualcosa di molto buono.
Ma esiste in effetti, e non da oggi, una tendenza politica alla deculturizzazione della società. Ad essa concorre anche una tendenza spontanea, figlia dello spirito dei tempi, a sua volta figlio di un’egemonia politica. Il rischio, dunque, non è quello della diffusione di scienza e tecnologia a discapito dei saperi tradizionali, ma quello della privatizzazione della cultura, dentro un contesto di tecnicizzazione dei rapporti sociali legato all’involuzione tecnocratica della politica.

Quest’ultima altro non è che il modello di governo neoliberale oggi imperante che opera senza più incontrare resistenze davvero efficaci nelle società, gestendo l’esistente e guardando al profitto come unico scopo. Nei suoi settori più alti e più avvertiti, l’élite neoliberale sa benissimo di avere bisogno degli studi umanistici come strumento di egemonia culturale.
Considerare la presunta inutilità delle scienze umane è un errore di prospettiva, confondendo una conseguenza del progetto politico neoliberale – che si concretizza nei tagli ai fondi per scuola pubblica e alla ricerca – con una causa.

La cultura umanistica e classica non sta naufragando, la flotta si è semplicemente chiusa nei porti delle classi dominanti. Come i redditi, anche i saperi critici e le chiavi della conoscenza si concentrano nella mani di una minoranza, in uno scenario di lotta di classe al contrario, dove pochi masters agguerriti traggono profitto da una maggioranza di slaves che, se si mostrano cooperativi, è perché sono privati della conoscenza. Al netto delle disuguaglianze di accesso al digitale, la tecnologia ha dato un grande impulso alla diffusione delle scienze umane. Se c’è un orizzonte culturale veramente interessante da considerare è senz’altro quello della commistione dei saperi – pensiamo all’Umanistica digitale – della loro massima diffusione e gratuità.