L’autodramma (come lo definì Strehler) del Teatro povero di Monticchiello raggiunge quest’anno l’edizione numero 47, ed è un bel record di resistenza e passione. Perché come sempre sono gli abitanti del borgo arroccato su uno dei colli attorno a Pienza, a far nascere ogni anno lo spettacolo, con i loro problemi, le loro rabbie, le loro consapevolezze e la loro vitalità. Poi certo, come succede da qualche tempo, c’è un artista come Andrea Cresti a dare forma, parole, immagini e tempi a questo fiume in piena, tanto fortemente poetico quanto maledettamente concreto. È ovvio che si parli della crisi, di quella economica sempre più buia che ha riversato i suoi condizionamenti sulla vita quotidiana delle persone, e quella culturale e «morale», che rende difficile capire con chi si sta, e perché.

Il Teatro di Monticchiello non ha mai voluto fare del gratuito moralismo, anche se nella funzione che si trova a esercitare, ogni serata di rappresentazione potrebbe rientrare nelle migliori morality plays. Ma gli abitanti di quel luogo per tanti motivi privilegiato, che è la Val d’Orcia, hanno un vero patrimonio da spendere, anche in scena, costituito, oltre che dall’esperienza teatrale, da una eredità antropologica di usanze e sapienze, tradizioni e rituali, che per il Teatro Povero si sono rivelati negli anni una ricchezza realmente inestimabile.

Infatti anche quest’anno, fin dal titolo, quello che si potrebbe leggere come un «semplice» apologo, suona come un percorso, un tracciato contraddittorio che non preclude delle possibilità di uscita: 2013 Maestoso, Allegretto con incubi (in scena fino al 14 agosto info teatropovero.it), riesce a condensare nella metafora perfino l’avvenuta sentenza della Cassazione! In scena una famigliola di estrazione contadina: padre madre e due figli, maschio e femmina adolescenti, e una nonna che si rivela presto l’elemento protagonista: dapprima nel suo opporre un distaccato silenzio rispetto al mondo intero, dal lontano giorno in cui ne scoprì la crudeltà; più tardi nello scoprire il rapporto sofferto con gli incubi che dentro e contro di lei, come contro ogni creatura, si accaniscono dando sembianze (umanoidi o vegetali, comunque spaventose) a ingiustizia, disonestà, violenza e sfruttamento che i rapporti umani inficiano. Quando non feriscono o uccidono.

Nello spazio di un’ora si snoda il racconto, racchiuso tra due bei colpi di teatro: all’inizio c’è il crollo del palcoscenico con tutti gli oggetti e i mobili che lo abitavano. Un vero terremoto che oltre a sfortunati e tragici eventi sismici non rimarginati che ben conosciamo, a partire dall’Aquila, evoca in modo trasparente lo sfacelo della nostra convivenza.

Alla fine c’è la cacciata, e «messa in sicurezza», dei fantasmi maligni cui gli incubi danno luogo, una cacciata degli angeli ribelli che ci mostra come perfino inganni e raggiri, individuali e collettivi, possano avere la loro dose di pulizia politica. Ma tutto il racconto, che ha quasi una «realtà parallela» nella recita dei burattini organizzata dai giovani che non vogliono arrendersi alla disoccupazione e alla sconfitta, offre piani diversi di divertimento e fruizione. E il sentimento che emerge è comunque capace di conquistare proprio tutti.