«Rock Hudson era un succhiacazzi? Che spreco con tutta quella figa hollywoodiana!». Le ossa che sembrano sul punto di bucargli la pelle, la carnagione giallastra, gli occhi iniettati di sangue, i movimenti pervasi da una costante scossa elettrica, la bottiglia di tequila e una scarica di bestemmie sempre a portata di labbra, Ron Woodroof è il più implausibile crociato della guerra contro l’Aids che si possa immaginare. E, portando sullo schermo la fantastica storia di questo elettricista di Dallas diventato imprenditore del traffico di medicine illegali contro l’Aids per salvarsi la pelle, Matthew McConaughey non ha intenzione di dargli delle scusanti: il suo Ron è un redneck orrendo – litigioso, misogino, omofobo e con una falcata così aggressiva da escludere a priori persino la possibilità di notare l’esistenza del prossimo. Nemmeno parlare, poi, di averne bisogno.

Già nella stalla, prima di saltare sulla groppa di un cavallo da rodeo, fa sesso con due donne allo stesso tempo e tira una striscia di coca. La sua è la voracità cieca di un buco nero. Quello che McConaughey gli dà invece, in un’interpretazione asciutta, di grandissima intelligenza, che non ha nulla a che vedere con quanti chili ha perso per il ruolo, è un’inequivocabilità totale. Che ci piaccia o no, Woodroof, per preservare quell’essere, è disposto a qualsiasi cosa. Come l’interpretazione di McConaughey, Dallas Buyers Club (che gli è valsa una delle 6 candidature all’Oscar guadagnate dal film), ha il suo fascino nella frontalità, nell’immediatezza del racconto, che il regista francocanadese JeanMarc Vallée rende con orecchio sensibile alle cadenze dolci e crudeli del Texas, un occhio paziente e una mise-en-scene generosamente disadorna.

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Il film è ispirato a una storia vera, apparsa nel 1992 sul Dallas Morning News a firma Bill Minutaglio. L’anno è il 1986. Finito in ospedale per un incidente sul lavoro, Ron Woodroof si sente dire che ha l’Aids, e che gli restano trenta giorni di vita. La sua prima reazione è furia: in quegli anni, il picco dell’epidemia, Aids era sinonimo di omosessualità, «la malattia dei finocchi» urla il cowboy. Subito dopo decide che non ha nessuna intenzione di morire. La prima idea è quella di corrompere un infermiere dell’ospedale perché gli passi dosi extra di Azt, il medicinale in via di sperimentazione. Quando le scorte finiscono e lui sta ancora peggio, Woodroof si arena in una clinica messicana dove un medico hippie (Griffin Dunne) gli prescrive una cura alternativa, a base di proteine e integratori alimentari, che rafforzi il suo sistema immunitario, invece di deprimerlo. Anche a un passo dalla tomba, Ron capisce il potenziale business della sua scoperta e, non appena si rimette un po’ in forze, inizia a importare illegalmente milioni di pillole. Nell’affascinante articolo di Minutaglio, basato su un’intervista con Woodroof poco prima che morisse, nell’ottobre del 1992 (sette anni quindi, e non trenta giorni come i medici gli avevano diagnosticato), si parla di circa 300 viaggi solo in Messico. Alcune volte, racconta l’articolo, per passare la frontiera Ron si vestiva da prete, altre da medico. Un giorno, le sospensioni speciali che aveva installato nell’auto per sostenere il peso delle pillole hanno ceduto proprio durante il controllo del passaporto. …

Non potendo vendere i farmaci, perché non autorizzati dalla Fda ovvero l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici (anche se poteva importarne una piccola quantità per uso personale), Woodroof fonda un club dove, pagando un’iscrizione mensile, si può avere accesso alle cure sperimentali e a ogni tipo di informazione disponibile sulla malattia. In breve, con orrore delle autorità mediche e governative, migliaia, di persone, decise come lui a vivere qualche giorno di più, disertano l’ospedale a favore dalla sua farmacia sui generis. In anni dominati da panico, diffidenza e mancanza di informazione sull’Aids, il Dallas Buyers Club non era l’unico di questi centri di medicina alternativa, ma era uno dei più grossi.

Nel film, il socio d’affari di Woodroof/ McConaughey è un ineffabile transessuale tossico che ha conosciuto durante il ricovero, Rayon, genialmente incarnato da Jared Letho. Il loro rapporto una screwball tra la versione esagerata di una donna e quella di un cowboy -due abnormità anche nell’universo emarginato della malattia. Tutti e due condannati a morte. La seconda parte di Dallas Buyers Club è più densa di trama, di accadimenti, passaggi obbligati e di cliché -la persecuzione di Woodroof da parte del governo e delle case farmaceutiche che vogliono controllare il mercato delle cure della malattia è trattata in modo schematico, troppo rapido (per quello meglio guardare il documentario di David France How To Survive a Plague).

Arrivano purtroppo anche i momenti strappalacrime d’obbligo. Ma, in generale, Vallée ( C.R.A.Z.Y. e The Young Victoria ), aiutato da due attori fantastici, si tiene ad ammirevole distanza dal sentimentalismo e dalla santimonia. La sua è la lezione del cinema di controcultura anni settanta, non quella del politically correct contemporaneo. Infatti, Dallas Buyers Club è anche un film sorprendentemente divertente.