Il rapporto sullo Stato Sociale (F. R. Pizzuti, Sapienza università editrice) descrive il ruolo economico dello stato sociale nei Paesi europei, e consegna un approfondimento tematico sui nodi di struttura che l’economia moderna deve affrontare con speciale riguardo ai «nuovi equilibri che si affermano con il passaggio dal trentennio del keynesismo a quello del neoliberismo: pur inizialmente sostenuti dagli stimoli espansivi della neo-globalizzazione e dalle nuove attività associate alla finanziarizzazione dell’economia, essi rivelano progressivamente la loro fragilità. E le due crisi riguardano aspetti «strutturali del funzionamento dei mercati capitalistici che si evidenziano quando sono privi di un’adeguata interazione dell’intervento pubblico». Questo sottolinea le difficoltà delle attuali istituzioni europee rispetto alla capacità di governo delle vicissitudini economiche mondiali.

«L’instabilità delle condizioni dell’offerta è stata ulteriormente accresciuta dall’indebolimento delle capacità d’indirizzo e controllo delle istituzioni (rimaste operanti a livello nazionale) rispetto ai mercati globalizzati».

Sono temi già discussi da P. Leon in Il capitalismo e lo Stato e da S. Biasco in Regole, Stato e uguaglianza.
Non è un caso che il Rapporto ricordi che:

  1. il fiscal compact sarà ridiscusso in autunno, in vista del definitivo recepimento nel diritto comunitario;
  2. la crisi mette in discussione la visione teorico-analitica che ha contribuito a generarla.

Ciò richiederà, come negli anni Trenta, di spingersi verso nuovi terreni di ricerca teorica. Tanto prima si avvia questa riflessione, tanto prima la “sinistra” potrà proporre un progetto alternativo.

Partendo da queste considerazioni generali, il Rapporto indaga il delicato tema della produttività spiegata attraverso il “morbo di Baumol” cioè su quanto fossero cruciali i differenziali di produttività nei diversi settori dell’economia; così cruciali da determinare l’insorgere di una tendenza alla stagnazione della produttività: i settori produttivi a maggiore domanda sono infatti anche quelli dove la produttività cresce di meno.

Perdendo di vista il fatto che la produttività è frutto di interazioni sistemiche (o macroeconomiche) e dunque che la produttività di ciascun settore dipende anche da quanto accade in altri settori, si finisce col condizionare la politica economica nel suo insieme.

Nello specifico si rischia di incoraggiare la competitività solo dal lato aziendale, trascurando la necessità di investimenti infrastrutturali e innovativi a livello di sistema produttivo complessivo.

Ne consegue un disarticolato disegno della politica economica che da un lato comporta l’insistenza sulla leva delle politiche di bilancio restrittive, soprattutto a carico dei paesi più deboli, e dall’altro implica l’assenza di politiche industriali atte a ridurre le disomogeneità persistenti tra i paesi comunitari.

Le performance di crescita modesta registrate dall’Unione comparativamente ad altre aree economiche non possono pertanto costituire una sorpresa. Nel mentre si comprimono le risorse finanziarie per fini sociali, specialmente per le regioni più bisognose. E mentre cresce il bisogno di politiche per contrastare la povertà, il Rapporto sottolinea che nel Rapporto dei cinque presidenti la parola povertà scompare.

Nell’analisi della spesa sociale pubblica, nei 28 paesi dell’UE dall’inizio della grande recessione è aumentata di circa 3 punti di Pil, ma si tratta di illusione ottica. Il balzo è legato alla riduzione del Pil e, in parte, all’aumento delle prestazioni che indubbiamente hanno contrastato gli effetti sociali della crisi.

In Italia questo effetto illusorio è ancor più marcato.

Nel 2014 la spesa ha raggiunto il 28,8% del Pil; tuttavia se confrontiamo la spesa pro-capite, lo stato sociale italiano si è ridotto: posto 100 il dato dell’UE a 15, la spesa sociale nazionale è scesa da 84 del 2000 a 74 del 2014. Anche la spesa previdenziale è soggetta a questa distorsione. Che raramente viene sottolineata. Non solo l’Eurostat include nella spesa pensionistica italiana il Tfr (pari a 1,4% del Pil), ma il regime di tassazione cambia il segno (peso) della spesa previdenziale.

In Italia le aliquote sui redditi da pensione sono le stesse applicate ai redditi da lavoro, con un ammontare pari a 2,6% del Pil, mentre in altri paesi le imposte sono inferiori.

Nei fatti, i confronti operati al lordo, sovrastimano la dimensione dei nostri trasferimenti pensionistici effettivi. Un’ultima considerazione riguarda i giovani. Il basso ammontare di risorse destinate alla scuola, si unisce alla scarsa qualità della formazione richiesta dal sistema produttivo.

Quest’ultima circostanza trova particolare riscontro nella condizione dei giovani che incontrano enormi difficoltà nel trovare un’occupazione coerente con gli studi svolti.

Il Rapporto curato da Pizzuti è un testo da tenere sulla scrivania per chiunque voglia realmente affrontare i problemi di struttura del Paese.