Come in As I Want di Samaher Alqadi, il punto di partenza di Souad della regista egiziana Ayten Amin è una tragedia accaduta a una persona cara, analoga a quella che sconvolge la vita della coprotagonista Rabab, sorella appena adolescente della ragazza che dà il titolo al film: Souad. «Quando andavamo a scuola una mia amica ha perso la sorella, e indagare il rapporto fra due sorelle è proprio l’idea da cui è nato il progetto di Souad», racconta Amin.

«Souad» è ambientato in una cittadina di provincia egiziana, Zagazig, lontana dal Cairo che siamo abituati a vedere sul grande schermo.
Per me era fondamentale girare fuori dalla capitale, in una piccola città in cui «presentare» e immergere le due protagoniste e la loro storia. Al Cairo le persone sono più abituate alla presenza della macchina da presa, con cui non hanno un rapporto «amichevole». A Zagazig era l’opposto: per tutti era una novità vedere una troupe cinematografica e le persone con cui avevamo a che fare sono state felici di aiutarci – dal fornirci oggetti da inserire nel film a prendervi parte loro stesse: i vicini di casa di Souad e Rabab, la signora che incontrano al mercato, sono fra i tanti che hanno interpretato se stessi. Desideravo proprio cogliere l’essenza di quel luogo e dei suoi abitanti.

Souad attraversa una crisi di identità, è divisa fra il vecchio mondo delle tradizioni e il nuovo rappresentato dai social network, dai costumi che cambiano. È una crisi in cui si riflette anche la società egiziana?
Credo che sia una cosa che riguarda tutti noi egiziani, ma non è stato un parallelismo su cui ho lavorato in modo consapevole, è accaduto organicamente durante la scrittura e le riprese. E questa crisi si riflette in tutti i personaggi, ciascuno di loro ha un problema con la propria identità, da Souad ai suoi genitori fino al suo fidanzato «virtuale» Ahmed: sono tutti in difficoltà ad essere se stessi. Tutti loro in una certa misura mentono, fingono. Penso sia una cosa molto comune in Egitto.

Il passaggio di Souad da una «personalità» all’altra riflette anche la condizione della donna in Egitto, è una forma di protezione.
Questo è il punto di contatto principale fra me e la protagonista: sono ben consapevole che nel rapportarsi alla società una donna deve crearsi un personaggio – in modo da essere ritenuta rispettabile, per poter lavorare, ricevere rispetto. È qualcosa che tutte noi donne e ragazze egiziane conosciamo molto bene, come una sorta di codice segreto fra di noi. Per questo i ragazzi nel film si sorprendono quando vedono le ragazze ridere e scherzare fra loro: non è ciò che sono abituati a vedere – di solito non lo facciamo di fronte ai nostri genitori, quando ci sono uomini intorno, avviene «a porte chiuse». Nel film mi interessava esplorare lo spazio fra il personaggio che si è tenute a interpretare e le vere se stesse.

Il film si interroga anche sul nostro rapporto con il mondo virtuale attraverso i cellulari.
Sono molto interessata ai social media perché penso che ci abbiano cambiati, che abbiano mutato i rapporti interpersonali. Anche questo è entrato a far parte della crisi d’identità generale raccontata dal film: è uno dei tanti modi di rappresentare se stessi, che aumenta lo iato fra persona e personaggio – i social creano uno spazio di libertà in cui esprimersi senza essere giudicati, che allo stesso tempo è solo virtuale e può quindi acuire la depressione, il distacco con l’espressione di sé nel mondo «reale». Il cellulare ha un ruolo fondamentale nella vita delle ragazze con cui abbiamo lavorato, per questo ne abbiamo fatto uno dei personaggi principali del