Non è un classico libro fotografico, ma nemmeno un fotoromanzo; forse un graphic novel, ma non si tratta nemmeno di un fumetto. Non ci sono né disegni, né nuvolette: La Crepa (add editore, 2017) sono le oltre 700 fotografie, accompagnate da un testo racchiuso in riquadri ordinati, dove Carlos Spottorno e Guillermo Abril raccontano il loro lungo viaggio ai confini dell’Europa.

La coppia di reporter spagnoli realizza un dettagliato reportage per raccontare la vita di frontiera sui confini vigilati e spinati con cui in molti paesi si tenta di regolare l’entrata dei migranti per raggiungere i territori dell’Unione. Iniziato dopo pochi mesi dal naufragio di ottobre 2013 al largo di Lampedusa, il viaggio si articola in molte tappe nelle quali gli autori documentano l’inasprirsi dell’emergenza migrante e il progressivo irrigidimento delle posizioni di molti paesi in questione di accoglienza e gestione dei migranti. Sullo sfondo, l’immagine di un progetto europeo che mostra le sue fessure e gli strappi, lontano da quello dipinto nelle parole di un ispirato Churchill nel 1946 a Zurigo (immortalato nelle uniche immagini di repertorio nel volume). La Crepa è il nome di una fortezza che si erige alta e quasi indifferente alla tragedia che si consuma ai suoi confini, una roccaforte che mostra i suoi squarci, l’insicurezza Europa, “mai esistita-dice una guardia di confine nel libro- un ufficio di collocamento”: è al tempo stesso, la possibilità di vedere ciò che sta fuori dal muro, di quel mondo delimitato dalla concertina che traccia linee taglienti sugli scatti di Spottorno e marca l’invalicabilità di un limite territoriale. Ne abbiamo parlato con il fotografo.

La Grieta è il titolo originale del vostro libro, frutto di tre anni di viaggi alle frontiere “sensibili” dell’Europa. È un libro che nasce da una commissione de El País semanal; immagino che la commissione fosse per i viaggi in Grecia e in Italia e che magari, dopo la vittoria del World Press Photo nel 2015, abbiate avuto la possibilità di ampliare il lavoro. È andata così?

Le cose si sono sviluppate proprio come dici: prima una commissione di El País Semanal, che è andata bene. Copertina, 20 pagine, qualche pubblicazione all’estero e poi un World Press Photo. Questo ci ha spinti ad allargare la ricerca, ad andare a vedere che cosa succede alle frontiere dell’Est dell’UE. Per questa seconda parte è stato fondamentale l’aiuto della borsa Leonardo della Fondazione BBVA per la ricerca e la creazione culturale. Senza di questa, non so se ce l’avremmo fatta. I giornali, come tutti sanno, hanno molte difficoltà a pagare i costi di lavori come questo, in cui bisogna viaggiare molto e passare molto tempo a lavorare quasi in esclusività. È anche vero che senza il sostegno di El País Semanal sarebbe stato altrettanto impossibile. Si è trattato di una combinazione quasi miracolosa.

È la prima volta che riceve una commissione per un lavoro tanto delicato?

Ho ricevuto altre commissioni, ma è vero che questa è stata la più importante ed esigente. Sentivamo un forte senso di responsabilità riguardo il soggetto dei reportage. Si trattava di vite umane in situazioni di emergenza e di rispecchiare tutte le sfumature politiche in un modo equilibrato.

Ho apprezzato molto le parti in cui Guillermo Abril inserisce nel testo cenni alla dinamica del lavoro e alla vostra comunicazione, in cui rendete il lettore testimone del lavoro del reporter. Era un effetto voluto o è un risultato spontaneo?

È stato spontaneo, ma appena ci è uscito il primo commento su questa dimensione delle difficoltà del mestiere, abbiamo capito che era una cosa da mantenere. Nelle parti del libro in cui noi due stessi siamo rispecchiati, diventiamo in qualche modo un qualunque giornalista, sempre sorvegliato e messo in discussione. Cerchiamo di trasmettere l’idea di quanto sia fragile il giornalismo, di quanto sia difficile testimoniare gli eventi per non cadere nella trappola del “copia e incolla” che distrugge la società attraverso la propaganda e le bufale.

In questo lavoro, la figura umana è protagonista: molte delle considerazioni dei migranti, della polizia di frontiera e dei militari dei vari paesi vengono inserite nel testo. Quali sono stati i momenti di conversazione più sorprendenti? Quali le reazioni dei fotografati di fronte all’obiettivo?

Io sono quasi sempre concentrato a fotografare e in realtà è che Guillermo che mantiene le conversazioni. Direi che sul Monte Gurugu, sulla nave Grecale e nei Balcani, abbiamo sentito le storie più intense e stravolgenti. Per quel che riguarda le reazioni delle persone alla fotografia, in genere c’era una sorta di complicità. Sanno di essere sotto la mira dei media: spesso reagiscono con una certa indifferenza, tuttavia, a volte, sono loro che ti cercano perché vogliono far conoscere la loro storia. Quando qualcuno mi chiede di non essere fotografato, io rispetto sempre questo desiderio. Sono molto scrupoloso verso chi si trova in difficoltà. Può anche accadere, certamente che in un gruppo ci siano reazioni diverse e che io non mi accorga di tutte. La fotografia richiede immediatezza o si rischia di tornare a casa senza foto.

Avete mai avuto la sensazione che il vostro lavoro fosse osteggiato?

Certo che è stato osteggiato. Ci siamo trovati spesso di fronte ad autorità che pur avendo accettato un incontro con noi –nello spirito del diritto all’informazione– erano poi piuttosto schive ad andare a fondo di certe questioni. Ci siamo trovati in situazioni esasperanti, come quando in Grecia non ci hanno lasciato scambiare una sola parola con i migranti di un centro di accoglienza, o quando con la scusa del rispetto della privacy non ci hanno fatto fotografare l’interno delle case degli abitanti del CARA di Mineo, anche se avevamo il permesso dei migranti stessi. Dalla parte dei migranti invece non abbiamo avuto impedimenti. Solo alcuni di quelli appena salvati in mare preferivano non parlare dell’esperienza, per paura di finire nei guai con i trafficanti di persone.

Penso alla situazione in Ucraina, dove eravate coscienti del fatto che i media europei non stessero dando rilievo degli addestramenti NATO sulla frontiera di Lituania e Polonia per contrastare la minaccia russa. Come avete convissuto con la responsabilità di raccontare quel luogo e quella dinamica?

Come sempre facciamo: cerchiamo di informarci prima di andare nei posti, cerchiamo di conoscere tutto quello che è già stato scritto, e poi lo vediamo coi nostri occhi. Alla fine si tratta di avere un criterio e un metodo: evitiamo di fare della propaganda. Cerchiamo di trasmettere la storia in un modo equilibrato, anche se a volte la nostra sorpresa si può leggere tra le righe. In realtà proviamo semplicemente a far provare al lettore la nostra stessa esperienza e la nostra stessa trasformazione: dall’ignoranza alla conoscenza. Per quel che riguarda la frontiera Est, la nostra ignoranza era grande, e per questo maggiore la percezione della responsabilità di raccontarla bene.

Avete deciso con Guillermo di usare il testo in questo modo o è stata un’idea dell’editore spagnolo? Perché non avete scelto di mettere baloon che riportassero il discorso diretto degli intervistati?

L’idea di creare questo linguaggio è stata mia. La chiamerei quasi una visione: non ci sono arrivato per caso, ma dopo una lunga riflessione a proposito della possibilità del linguaggio fotografico di trasmettere storie complesse, piene di informazione e sfumature. È il risultato di un’analisi sul modo in cui questa storia poteva essere consegnata a un pubblico di lettori non specializzato, ampio e trasversale.
Certo, esiste il graphic novel giornalistico, così come esistono i fotoromanzi. Ma nel primo non ci sono foto, e nel secondo non c’è giornalismo. Poi esiste Le Photographe di Mercier e Lefévre, dove giornalismo, foto e disegni convivono. Un’opera fondamentale per capire La Crepa. Ma un grande reportage a fumetti, tutto fatto con le foto di uno stesso autore, io non lo conosco.

Il libro vuole rispettare le regole basiche del giornalismo tradizionale. Cioè, se è vero che non è mai possibile essere interamente obiettivi, è anche vero che ci siamo obbligati a restituire i fatti così come sono realmente successi. Quando in un fumetto una persona parla con un baloon, si capisce che quello che sta dicendo lo sta dicendo proprio in quel momento. Invece a noi non è mai capitato di fare le foto proprio nel momento che uno dicesse qualcosa che poi veniva incluso nel libro. Così, abbiamo scelto di far parlare le persone come in un reportage: con le citazioni. In questo modo non esiste la contemporaneità dell’immagine e della parola. Sono due dimensioni che vanno insieme, ma non attaccate.

Ci sono molte foto di piccoli dettagli. Mi sembra un modo per addentrarsi nelle sensazioni, per rendere l’atmosfera, oltre che le informazioni. Un elemento visivo molto coinvolgente che insieme alle più evidenti scelte narrative, rende il vostro giornalismo “sentimentale”, senza per questo perdere di vista la realtà dei fatti. Crede che sia un’affermazione corretta?

Quando abbiamo scelto di usare il linguaggio visivo sequenziale e il racconto in prima persona, l’abbiamo fatto anche per rendere la storia più facile da digerire, più attraente da un punto di vista del racconto. Effettivamente, non abbiamo alterato i fatti, gli ingredienti del piatto, ma la presentazione è stata curata in modo da farla apparire più appetitosa, soprattutto a un pubblico che magari non è particolarmente attratto da questo genere di storie. C’è del sentimentalismo nella nostra storia? Forse. Ma credo sia stata moderato, e comunque, per una buona causa.

Negli anni in cui La crepa è stato realizzato, la situazione in Europa è cambiata molto. Se doveste continuare questo reportage su cosa vi concentrereste?

Direi che il tema da seguire in Europa, molto legato a quello del libro, è il risorgere dei populismi e nazionalismi. La politica del bianco o nero, la polarizzazione dello spettro politico. Viviamo un momento purtroppo molto riconoscibile: la classe politica e le istituzioni hanno perso fascino e credibilità. Le masse cercano ideali epici, leader forti, gente “con le idee chiare”. Si ha il sospetto che siamo andati troppo lontano con la permissività, che la buona volontà sia diventata “buonismo” e quindi siamo diventati degli scemi deboli, che si fanno sbranare senza neanche opporre resistenza.

L’UE non trasmette più tanta sicurezza. Molti vi trovano più difetti che virtù. Il fantasma dei vecchi nazionalismi appare ad ogni angolo: Brexit, Le Pen, Polonia, Ungheria, Salvini, Cataluña… per me è tutto lo stesso fenomeno.