È legittimo chiedersi se Alfano e gli altri “moderati” che hanno contestato le deriva eversiva di Berlusconi finiranno come Fini. Posso sbagliarmi ma penso di no. Questa volta il processo, sia pure appena avviato, di dissociazione colpisce non alleati esterni, come fu nel caso di Casini e poi di Fini. Colpisce il cuore stesso del partito e del movimento berlusconiano, il nucleo dei suoi seguaci più vicini, uno dei suoi consiglieri più importanti, Cicchitto, quello che lui stesso ha designato come segretario del partito, Alfano, alcune tra le figure di primo piano dell’establishment, ministri di peso come Lupi. Se così è, siamo di fronte allo sconvolgimento dell’assetto politico dal tempo dell’ascesa di Berlusconi.
Il magnate di Arcore venne alla ribalta come potente elemento unificatore e suscitatore di nuove energie nella destra italiana. Un’area moderata allo sbando per il crollo dei suoi referenti, in particolare della Democrazia cristiana, resa superflua dalla fine della guerra fredda e delegittimata da Tangentopoli, trovò in lui l’insperato punto di riferimento. Una destra post-fascista emarginata ed esclusa dal potere se non come forza di rincalzo, ebbe la piena dignità di aspirare alla guida delle città e del governo. Una forza populista ed etnocentrica, antistatale e antifiscale come la Lega, potè dettare grazie a lui le sue priorità secessioniste e xenofobe su scala nazionale. Energie latenti di una maggioranza silenziosa intrisa di antipolitica e di fastidio per le regole ma anche di perbenismo e familismo vennero allo scoperto, mettendo un’ipoteca sul potere come mai nella Repubblica.
Ora, dopo la dissociazione di Fini e la disgregazione dei leghisti, nel momento in cui Forza Italia cerca di tornare alle origini resuscitando riti e simboli, un’intera ala del partito dice no, non a queste condizioni. E’ paradossale che la pattuglia dei dissidenti invochi la moderazione e condanni l’estremismo berlusconiano dopo averlo assecondato per venti anni. E’ grottesco che, essendo vissuti per tanto tempo in un movimento in cui il capo, consigliato dai suoi legali e dai suoi uomini-azienda, decideva tutto per plebisciti e acclamazioni, si lamentino ora di non essere stati consultati sulle loro dimissioni. Infine è patetico che vogliano difendersi dal “metodo Boffo” del Giornale, ossia dalla denigrazione calunniosa sistematica tramite i giornali di famiglia, metodo la cui esistenza hanno sempre negato. Ma in tutto questo ci sono i segni di un rovesciamento destinato a pesare. Ci sono i segni di una crepa destinata a crescere. E’ la crepa consegnata mirabilmente alla metafora ossimorica dei “diversamente berlusconiani”: perché fin qui c’è stato un solo modo per essere berlusconiani, quello di amare il capo, di servirlo e di assecondarlo nei suoi umori cangianti, nella ostinata determinazione di fare i suoi comodi e i suoi interessi.
«Che fai mi cacci?», chiese Fini a Berlusconi pensando che fosse venuto il momento di dire basta. Ma gli andò male. Berlusconi aveva ancora risorse materiali e mediatiche sufficienti per sottrargli terreno sotto i piedi e gettarlo all’angolo. « Che fai, ci sottoponi alla macchina del fango?», gli chiede oggi il suo delfino senza quid, il mite Alfano, il primo della classe del signorsì. Ma il flebile segno di indipendenza trova questa volta di fronte a sé un Berlusconi barcollante, come un pugile suonato anche se colto da furore. E forse, questa volta, non finirà come con Fini.