Curioso, istrionico, con un gusto narrativo che rende piacevole la lettura dei suoi saggi. Richard Sennett ha sempre declinato due grandi passioni. Raccontare la vita activa (non ha mai nascosto il suo debito intellettuale verso Hannah Arendt) e, al tempo stesso, elaborare una griglia interpretativa su quanto accadeva nelle metropoli e nei luoghi di lavoro, sia che si trattasse degli stabilimenti automobilistici di Flint, degli uffici della Ibm o dei grandi o piccoli panifici di New York. A questi temi ha dedicato libri, conferenze, corsi universitari, che lo hanno reso uno dei sociologi più rilevanti degli Stati Uniti, laddove ha analizzato i mutamenti intervenuti nelle identità lavorative, anticipando di molti anni il tema del «declino dell’uomo pubblico» e la crisi dell’autorità nel capitalismo. E rilevante è stata la sua trilogia sulla nuova ascesa dell’«artigiano» dopo la grande trasformazione postfordista, anche se il suo craftman suona più come proposta teorica-politica alla «corrosione del carattere» alimentata dallo sviluppo capitalistico non radicata a un principio di realtà.

POCHI RICORDANO che Richard Sennett è anche un urbanista: con una disincantata attitudine da flâneur ama girare per piazze e quartieri di diverse città, dalla Londra, dove vive nei mesi che insegna anche alla London School of Economics, a New York, città d’adozione dopo il trasferimento da Boston, ma anche Venezia, Parigi, Shangai, Mumbai, New Dehli. Città descritte in questo Costruire e abitare (Feltrinelli, pp. 363, euro 25), che può essere considerato l’esito metropolitano della trilogia sul nuovo artigiano, ma anche la conclusione di una riflessione sulle metropoli che dura ormai da oltre cinquant’anni.

Ma per addentrarsi nella costellazione teorica e per fissare il suo punto di vista emergente in questo libro occorre lasciarsi trasportare dai racconti che l’autore fa delle sue «passeggiate» metropolitane, dalle discussioni che ha avuto, dai ricordi dedicati agli intellettuali incontrati nella sua vita, da Jane Jacobs a Lewis Mumford, da Saskia Sassen a Hannah Arendt, ma anche dagli aneddoti attorno alle riflessioni di Walter Benjamin sulla Parigi, capitale del ventesimo secolo, fino al Max Weber di Economia e Società, al George Simmel de La metropoli e la vita dello spirito.

AVVINCENTI sono le pagine sulle discussioni avute con Jane Jacobs e Lewis Mumford attorno alla polarità teorica che muove questo libro: la differenza tra cité e ville. Con il primo termine, l’autore indica la socialità, l’informalità, lo spazio del vivere collettivo scandito da incontri e conflitti, tra tolleranza e meccanismi di esclusione. È la città orizzontale dell’urbanista radical Jane Jacobs, che ha combattuto contro la weltanshauung urbana dominante, che vedeva nei grattacieli il futuro delle città. Per Jacobs, lo sky-line di New York era uno spettacolo insopportabile. Per questo ha sempre proposto la città orizzontale, scandita da case non molto alte, circondate da piccoli giardini in un susseguirsi di strade a due carreggiate, piccole piazze e parchi per incontrarsi. Nella sua vita Jacobs ha conosciuto vittorie e sconfitte. Alcuni quartieri di New York, infatti, sono stati risparmiati dalle tonnellate di cemento, acciaio e vetro che hanno inondato invece altri quartieri.

PER JACOBS la città coincide con la cité. In questo, la spontaneità prevale sulla progettazione centralizzata dello spazio urbano, a differenza di quanto invece teorizzava Lewis Mumford, urbanista che vedeva nel lavoro di programmazione il passaggio obbligato per uno sviluppo ordinato della società metropolitana, all’insegna di una attenuazione delle diseguaglianze sociali, di razza e genere. Insomma la ville di Mumford è all’insegna dello spirito socialdemocratico di uno stato che interviene per favorire una società migliore e più giusta.

Richard Sennett non esprime la sua adesione ai due modi di intendere lo sviluppo urbano, che indicano anche una concezione dei rapporti tra governati e governanti, tra movimenti sociali e amministrazione pubblica, tra capitale e lavoro.

Jane Jacobs vedeva nel diritto alla città uno dei capisaldi di una crescita urbana determinata dal «basso», cioè dagli abitanti, mentre Mumford sosteneva il protagonismo di una autorità centrale politica che definisse le coordinate, i vincoli, le finalità e gli obiettivi affinché le metropoli fossero luoghi di un «socialismo umanista». Richard Sennett non sceglie mai nettamente un punto di vista e se la cava con un salomonico: avevano ragione entrambi.

Ma per cogliere la valenza di questa polarità tra cité e ville occorre perdersi nei racconti dei piccoli e spesso «illegali» venditori di smartphone incontrati alla Nehru Place di Dehli.

Nehru Place è per Sennett un ibrido di cité e ville, perché è costruita come un hub per decine e decine di start-up, nonché snodo per il trasporto urbano e extraurbano. Ma è anche il luogo per i piccoli traffici e commerci dove il confine tra legalità e illegalità è labile e poroso, un po’ come avviene nel Portobello londinese, alla romana Porta Portese o nei tanti mercati di ambulanti che costellano la vita cittadina, nel nord e nel sud del pianeta. Oppure, ci si perde negli quartieri nuovi di Shangai, con grattacieli altissimi, strade a sedici corsie dirette verso il nulla, espressione di un dirigismo che non esita a deportare milioni e milioni di persone.

COMMOVENTE è il racconto della battaglia condotta da una urbanista cinese per salvare i vecchi quartieri di Pechino dalla furia demolitrice degli amministratori, spinti a cancellare ogni traccia del passato in nome della ipermoderna Cina da costruire. Oppure quando ricostruisce la sua visita al Googleplex di New York, concludendo la sua narrazionecon un lapidario: quella non è città, è un simulacro di città, è un dispositivo concentrazionario che opera il cortocircuito tra vita e lavoro. Nel Googleplex c’è di tutto, dal cinema ai ristoranti per tutti i palati, dagli asili alle palestre, dalle camere dove dormire e magari amoreggiare, definendo la socialità come una variabile dipendente dal lavoro. Meglio, dunque, il disordine, la spontaneità delle caotiche e congestionate strade di New York.

L’AUTORE RIVOLGE un’attenzione meticolosa all’urbanistica della esclusione, cioè dei quartiere costruiti per tenere separati gruppi umani o le «classi pericolose» (operai e varia marginalità sociale in passato; ai quali si aggiungono migranti, precari in era contemporanea). L’imprinting iniziale a tale urbanistica dell’esclusione, che diventerà poi dominante nella costruzione dei ghetti americani, è il ghetto costruito a Venezia per gli ebrei. Lì vigeva il principio che all’interno del quartieri gli abitanti si potessero sentire liberi . Poteva essere frequentato anche dai «gentili» durante il giorno. Ma la sera era chiuso, serrato. Dunque libertà e esclusione, tolleranza e repressione. È lo stesso principio di economia politica dell’esclusione presente nelle «città piovra», emerse dagli intrighi di strade, check-point e gated community per ricchi costruiti per aggirare gli sterminati slums che proliferano in molte città nel Sud del mondo. La cifra, secondo Sennett, del Costruire e dell’abitare.

Il suo libro è da leggere come una documentazione di quell’uso capitalistico del territorio. La metropoli diviene lo spazio per una valorizzazione economica dei vecchi quartieri attraverso lo spostamento soft o coatto degli abitanti storici per dare vita a quartieri destinati a affluenti professional, manager e knowledge worker.

La gentrification nasce da un intreccio tra finanza, sapere urbanistico e amministrazioni sensibili solo agli ordini del discorso dei poteri forti. Irriverente è dunque il giudizio sulle smart city, dove la tecnologia è individuata da urbanisti in deficit di creatività, come il deux ex machina che porta a nuova vita la morente metropoli, sommersa da traffico, superaffollamento e inquinamento.

QUEL CHE SENNETT relega però sullo sfondo è l’aspetto emerso nel racconto sul Googleplex: la metropoli diviene fabbrica sociale. Venuti tendenzialmente meno i confini tra vita e lavoro, tutta l’organizzazione metropolitana è funzionale alla dilatazione della giornata produttiva, anche se questo non esclude disoccupazione di massa e precarietà diffusa. Il lavoro salariato è reso regime attraverso l’egemonia della ville neoliberista sulla cité, in un equilibrio certo in divenire, dove la cité non deve essere tuttavia cancellata, ma essere il momento dell’innovazione sociale e produttiva, frutto di una cooperazione sociale in bilico tra ricerca di autonomia e assoggettamento.
Nodi teorici e politici che Sennett, da buon disincantato flâneur, intravede e documenta in un libro presentato come la chiusura di un ciclo teorico nel quale non c’è però posto per quella politica dal basso auspicata da Jane Jacobs. E dai movimenti sociali che continuano a definire lo sviluppo metropolitano.

 

Incontri a Pistoia,
Torino e Milano

Richard Sennett parteciperà il 27 maggio alla nona edizione di «Dialoghi sull’uomo» (Pistoia). Martedì 29, alle ore 18,30, al grattacielo Intesa Sanpaolo di Torino, il sociologo terrà invece una conferenza dal titolo «La città aperta. Presente e futuro della vita urbana». Mercoledì 30, alle 18 presso l’ex chiesetta nel Parco Trotter di Milano Sennet sarà ospite del ciclo di incontri promossi dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in collaborazione con Fondazione Cariplo.

 

Spazi aperti
Per una smart city
cooperativa

Richard Sennett

La smart city prescrittiva crea un danno mentale; abbassa
il livello dei suoi cittadini. La smart city cooperativa stimola intellettualmente i cittadini coinvolgendoli in problemi complessi e mettendoli a confronto con le differenze. Il contrasto coincide con la nostra impalcatura concettuale complessiva: la smart city prescrittiva è chiusa, la smart city cooperativa è aperta