La gioventù e il sapere, la vita in divenire e l’esperienza, il pensiero e la pratica, legati all’amore per la trasmissione del gesto e della cura del tempo, quasi fosse una pianta da coltivare nel proprio giardino, mentre lo sguardo accarezza, curioso, lo spazio che abitiamo e nel quale, a volte, balliamo.

Tutto ciò respira nella Biennale College – Danza, diretta da Virgilio Sieni a Venezia nello scorso weekend. Una quattro giorni intensa in cui la città, con le sue calli, i suoi campi, i suoi luoghi antichi pieni di storia, ha danzato con poesia e rigore, allegria e sentimento. «La costruzione – dice Sieni – di una città laboratorio, Venezia come metafora dell’abitare il mondo», «un ciclo di camminamenti dove il pubblico può edificare una coreografia di spostamenti e prospettive».

La gioventù: sì, è la generazione portante del College, ragazzini, adolescenti, ventenni che hanno avuto il privilegio di incontrare maestri della coreografia e della performance in un College chiamato da Sieni La dignità del gesto. Titolo non casuale. Perché fin dai più piccoli protagonisti, giovanissimi danzatori di età compresa tra i 10 e i 15 anni, partecipanti alla sezione Vita Nova, i protagonisti del College sono stati portati dai maestri a mettere in luce tra di essi e verso il pubblico una gestualità che è figlia di un percorso attento, curato, degno e rispettoso di cosa significa crescere «danzando».

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Dei tre lavori di Vita Nova ne abbiamo visti due, Verve – quartetto colore di Marina Giovannini, prodotto in collaborazione con la Fondazione I Teatri Reggio Emilia e CAB008, e Occhio di bue di Michele Di Stefano, Leone d’Argento 2014, prodotto in collaborazione con AMAT e Civitanova Danza. Giovannini, a lungo danzatrice per Sieni e ormai da anni artista indipendente, ha portato quattro giovani ragazzine a regalare al pubblico dell’Arsenale (Tese dei Soppalchi) la condivisione di un percorso giocoso, quanto preciso e virtuoso. Piccole strisce di scotch tolte dai muri e rimesse per terra, all’interno del grande quadrato marcato dal nastro bianco, a creare un nuovo luogo per i giochi, spazi nello spazio, dove far maturare, con semplicità e vitalità, una danza a quattro sempre più complessa, con variazioni di cui le bimbe hanno compreso la matrice, ballando tra il silenzio e una rivisitazione elettrizzante de Il volo del calabrone.

Sette sono i ragazzini di Occhio di bue di Michele Di Stefano: anche loro hanno capito, sperimentato, cosa vuol dire prendersi il tempo per esplorare una possibilità del corpo, lavorare nel gesto, in un rapporto fecondo con lo spazio. Si muovono sotto un grande telo bianco, teste che si levano, suggerendo paesaggi lontani, desertici eppure abitati, in movimento. Una natura che piano piano si trasforma: il paesaggio bianco lascia posto a una tenda da camping, scossa all’interno, dai giovani protagonisti. Poi, a un tratto, escono tutti, uno dopo l’altro, finalmente fuori, e la danza che esplode insieme alla musica è magnifica, di segno contemporaneo perché dinamica, tattile, nel disegno brioso, energetico delle articolazioni. È la gioventù che ci parla, con tutto il suo potenziale per il futuro.

Sono loro, i giovanissimi, che sentiamo più vicini, nel potere della trasmissione del gesto, alla presenza in Biennale di Anne Teresa De Keersmaeker, Leone d’Oro alla carriera per la danza 2015, che con queste parole ha accolto da Sieni e dal Presidente Baratta il Leone d’Oro: «Amo la danza, amo danzare, amo i danzatori». Un’artista che ha regalato al pubblico una riflessione sull’essenza della danza: «a dance has to be danced», una danza, per essere, deve essere danzata, perché la bellezza dell’arte del gesto non si consolida in qualcosa di materiale, acquistabile come un dipinto, un quadro, una statua, un libro, un film, ma è qualcosa di legato alla carne, alla singolarità del momento. «Dance need dancers, public, we need to be there», la danza ha bisogno dei danzatori, del pubblico, abbiamo bisogno di esserci.

Ed ecco quindi perché è importante che la Biennale metta con il College l’accento sulla trasmissione, dai maestri ai giovani, dagli esperti ai neofiti, e perché è bello che sia stata De Keersmaeker, una coreografa e danzatrice che alla formazione ha dedicato la scuola P.A.R.T.S., da lei fondata in Belgio, prenda un Leone durante la Biennale di Sieni. E non solo. De Keersmaeker, classe 1960, ha portato a Venezia, alle Tese, Fase, four movements to the music of Steve Reich, capolavoro del 1982, miracolo del minimalismo, che al tempo del debutto era danzato da De Keersmaeker insieme a Michèle Anne De Mey.

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A Venezia l’artista l’ha riballato con Tale Dolven. Una bellezza per l’intreccio mirabile tra danza e musica, per una coreografia che è matematica degli spazi e dei tempi, ma anche allegria, capacità di lasciare che il corpo, la mente vivano le variazioni come infinite possibilità creative.
De Keersmaeker danza il suo lavoro ed è percepibile quanto Fase appartenga alla sua storia, al suo corpo, al suo percorso d’artista, ma anche si sente quanto da lei traspiri, nell’esperienza, la vitalità del gioco, dell’energia, che appartiene alla creazione e alla giovinezza.

E in questa danza il potere politico, sociale del gesto unisce la grande maestra ai piccoli danzatori in erba di Vita Nova. Tra questi due poli, molti i lavori da citare: in primis Roman Photo di Boris Charmatz e Olivia Grandville, una geniale libera interpretazione delle foto del libro Merce Cunningham: Fifty Years di David Vaughan, nella sezione Invenzioni; la ripresa dei Quadri dal Vangelo secondo Matteo di Virgilio Sieni, con alcune Pietà / Madri e Figli che meriterebbero un approfondimento a parte per la bellezza e l’intimità della relazione trasformata in amore da condividere; e ancora Francesca Pennini con il suo Collettivo Cinetico e Alessandro Sciarroni, quasi un omaggio al minimalismo di Anne Terese De Keersmaeker, rivisitato per giovani danzatrici.