Nel 1903, all’École des hautes etudes sociales si tiene un dibattito sullo statuto delle scienze sociali fra Émile Durkheim e Gabriel Tarde. Di quella discussione è rimasto solo un breve resoconto, più qualche testimonianza, fra cui quella del figlio di Tarde, che evidenzia come al di là delle differenze di merito, fra i due intercorresse una reciproca incompatibilità di pelle, evidenziata dalle espressioni e dalle posture di entrambi non appena l’altro prendeva la parola.
A lungo, Tarde è stato visto come il grande perdente, una sorta di vittima sacrificale dell’affermazione di Durkheim sulla scena culturale e accademica francese e, nel dopoguerra, della sua pantheonizzazione, insieme a Max Weber, come padre fondatore della sociologia. In realtà, fra inizio la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la fama e autorevolezza di Tarde era notevole all’interno di quel crogiolo fatto di protosociologia, psicologia delle folle, criminologia che si interrogava sull’avvento delle masse sulla scena politica e sui processi di urbanizzazione, democratizzazione e modernizzazione.
Per quasi tutta la vita, Tarde aveva fatto il magistrato in provincia, a Sarlat in Dordogna, per poi diventare direttore delle Statistiche giudiziarie. In ciò si manifesta una condizione di eccentricità rispetto all’ambito accademico, non contraddetta dalla nomina, nel 1900, alla cattedra di Filosofia moderna in un’istituzione anomala come il Collège de France.

LA SUA PRODUZIONE è vasta ed eterogenea, spaziando della criminologia (con tanto di polemica con Lombroso) e dalla psicologia economica fino a opere di taglio letterario, fra cui i fantascientifici Frammenti di storia futura e Il gigante calvo (raccolti nel volume Futuri possibili, edito da mimesis). Sul piano di una nascente sociologia, in cerca di identità e metodo, centrale nella produzione di Tarde è Le leggi dell’imitazione (Rosenberg & Sellier).
Qui nasce la polemica con Durkheim. All’idea che il sociale costituisse una realtà sui generis, dotata di una propria oggettività, per cui ogni fatto sociale doveva avere una spiegazione sociale, Tarde obiettava che il sociale non spiegava ma doveva essere spiegato. Non era dato pre-esistente, ma un processo in continua costruzione attraverso i fenomeni di imitazione e invenzione. Alla luce della filosofia di Leibniz, si proponeva l’idea di una monadologia sociologica (Monadologia e sociologia, ombre corte), in cui la monade, lungi dal costituire un’individualità chiusa e rigidamente perimetrata, incorpora in sé una dimensione di apertura relazionale.

LA PROSPETTIVA è quella di una sorta di intra-psicologia in cui a contare più che i soggetti individuati sono i campi di forza che si producono attraverso il confronto, la coniugazione, l’opposizione fra i flussi di imitazione.
Tracciando nel 1947 un profilo della sociologia francese, Claude Lévi Strauss specificava come l’opera di Tarde, pur interessante, fosse «pressoché dimenticata». E tuttavia, a decenni di distanza l’interesse nei suoi confronti è cresciuto. Un ruolo decisivo, in proposito, è stato svolto da Gilles Deleuze che ha sempre confessato una vera e propria passione per Tarde sia sul piano filosofico, specie riguardo alla questione della differenza, sia su quello sociologico, in riferimento a una concezione dell’interazione basata sulla circolazione di flussi e di onde di credenza e desiderio. In tempi più recenti, Bruno Latour ha riconosciuto in Tarde un anticipatore dell’Action Network Theory, immaginando, in un volume recentemente tradotto, Riassemblare il sociale (Meltemi), uno sviluppo diverso per la sociologia se a prevalere non fosse stata l’impostazione durkheimiana. A quel punto, il sociale sarebbe stato assunto non come un ambito reificato ma nei termini di un principio di associazione.
Del perdurante interesse per Tarde testimonia, oltre le traduzioni degli ultimi anni cui si è fatto riferimento, la recente pubblicazione di Gabriel Tarde. L’opinione e la folla (1901-2021) (Meltemi, pp. 164, euro 16), che raccoglie, a cura di Sabina Curti, una serie di contributi incentrati su un’altra delle sue opere maggiori, L’opinione e la folla. In quel libro, in dialogo critico con La psicologia delle folle di Gustav LeBon, grande best seller dell’epoca, si tematizza la costituzione del collettivo non solo in termini di folla, in cui il contagio psichico avviene attraverso il contatto fisico, ma anche di pubblico. In questo l’aggregazione avviene prescindendo dalla coincidenza di spazio e tempo, attraverso la forza connettiva dell’opinione la cui circolazione era resa possibile dall’affermarsi di media quali il giornale, il telegrafo, il telefono i media.

TRASVERSALMENTE alle appartenenze locali, si creano così le premesse per processi di aggregazione collettiva molteplici e paralleli. I contributi presenti nel volume esplorano molte delle direttrici lungo la quale si è mossa la riflessione tardiana, soffermandosi, in particolare, sulle rielaborazioni passate e presenti del suo pensiero.
A emergere è il profilo di un pensatore policentrico, le cui intuizioni hanno avuto uno sorte meno marginale di quanto si immagini e, soprattutto, capace di innestare ricche interlocuzioni oltre le barriere delle discipline e del tempo. E in proposito particolarmente appropriato appare quanto di lui diceva, nell’orazione commemorativa, colui che gli sarebbe succeduto sulla cattedra di Filosofia moderna, Henri Bergson, secondo il quale esistevano due generi di pensatori.
Quelli del primo tipo sceglievano una direzione e la sviluppavano gradualmente verso una sintesi. Poi ve ne erano altri, che «senza metodo apparente vanno dove la loro fantasia li conduce; le loro intuizioni non hanno nulla di sistematico, ma si organizzano spontaneamente in sistema. Questi sono filosofi senza avere cercato di esserlo, senza averci pensato. A questa razza appartiene Gabriel Tarde».