Il tema forte e il più interessante, dell’oscar 2013 – da Lincoln a Zero Dark Thirty, ad Argo a Django-Unchained era l’America che riguardava/riscriveva se stessa, la sua storia più o meno recente. Da quel bisogno chiarissimo di tornare in alcuni dei momenti bui dell’America Dream, era uscito vincitore il film più lineare, rassicurante, meno problematico e irrisolto. Non a caso quello dotato di happy ending Argoesplicito (gli ostaggi americani vengono liberati dal loro assedio nell’ambasciata di Tehran) e implicito (gli Usa possono intervenire con successo in un altro paese senza spargere una goccia di sangue). Con la riapertura delle scuole e il riluttante ritorno dei membri del Congresso a Washington, l’inizio di settembre porta con se anche il via alla corsa verso gli Academy Awards.


Dai primi sintomi sembra che l’esame di coscienza sarà un leif motiv presente anche quest’anno. Dopo il pirotecnico viaggio tarantiniano negli abissi dello schiavismo (in cui usava il pretesto del western all’italiana per confrontarsi con John Ford) un afroamericano di Philadelphia e un inglese che discende da immigrati africani nei Caraibi (Granada) affrontano due storie vere di black experience.
Anche se, in fatto di colore di pelle, il rapporto tra padroni e servitù nella casa bianca tra il 1957 e il 1991 ricorda quello di una piantagione, è un maggiordomo non uno schiavo, il protagonista di The Butler nuovo film di Lee Daniels (Precious, The Paperboy) ispirato alla figura di Eugene Allen, assunto sotto la presidenza Eisenhower e, per i successivi 34 anni, ha diretto servizio dei primi cittadini degli Stati uniti. A partire dalla fotografia perennemente immersa in luce dorata, dalle musiche turgide, fino all’interpretazione forrestgumpiana di Forest Whitaker (nei panni del maggiordomo Cecile Gaines) alla presenza e intelligente e calcolata di Oprah Winfrey (già produttrice di Precious) ai non molto riusciti camei

presidenziali di Robin Williams (Eisenhower), John Cusak (Nixon), Liev Schreiber (Johnson), Alan Rickman (Reagan), Jane Fonda (Nancy), The Butler strilla «fatto per gli Oscar» tutte le parti. E quella che poteva essere una microstoria di punto di vista e dettagli affascinanti (da un articolo uscito sul Washington Post nel 2008 pochi giorni dopo le elezioni di Obama), viene ingabbiata in una struttura didattica che attraverso il rapporto conflittuale tra Gaines e suo figlio Louis (l’attore inglese David Oyelowo) marca come una lisa della spesa tutte le tappe must della storia americana di quegli anni – gli omicidi di John Kennedy e Martin Luther King, il Vietnam, Watergate, Ku Klux Klan e Black Panther. La disaggregazione delle scuole e Nelson Mandela. Con quel suo atteggiamento da «sbatti il mostro in prima pagina», che fa tuttuno di blackexploitation e politically correct , Daniels può piacere o meno, ma in genere il suo lavoro suscita reazioni polarizzanti e appassionate. Questo è il suo film piu addomesticato, cinico e banalmente sentimentale che abbia mai fatto.
12 years a slave è un oggetto in superficie, terzo film dell’artista/regista Steve Mc Queen, anche lui tratto da una biografia vera quella di Solomon Northup, il cui memoriale venne pubblicato per la prima volta nel 1853, pochi mesi dopo l’uscita di La capanna dello zio Tom, della scrittrice abolizionista Henriette Beecher Stow. Scomparso dalla circolazione fino agli anni 60, quando è stato resuscitato dalla studiosa Sue Eakin, il memoriale ripercorre la vicenda di Northop, che, da uomo libero musicista, con moglie e due figli a Minerva nello stato di New York, viene attirato a Washington con la promessa di un ingaggio, per poi essere rapito, ribattezzato, caricato a bordo di una nave diretta in Louisiana, e venduto come schiavo a proprietari di piantagione, in grado di crudeltà sempre crescente.

Insieme allo sceneggiatore John Ridley (Three Kings, Red tails e qui a Toronto con il suo esordio alla regia All is by my side sul giovane Jimi Hendrix), McQueen stava lavorando da tempo a un film sullo schiavismo che sarebbe stato prodotto dalla compagnia di Brad Pitt, Plan B. È stata sua moglie, la storica Bianca Stigter, a suggerirgli il libro di Northop, il regista di Hunger e Shame ha ripetuto spesso in questi giorni, come il libro sia stata una rivelazione immediata, e l’ha paragonato più volte al Diario di Anna Frank, (solo cent’anni prima).
Diversamente dal pulp intenzionalmente sordido di Daniels, McQueen fa cadere i film dall’alto della sua esperienza delle arti visive. La sua è un’opera di immagini studiatissime, molto belle e glaciali, che si contrappongono al valore shock dei suoi soggetti – al cinema, l’agonia di Bobby Sands e la frenetica dipendenza/abiezione del protagonista di Shame. 12 years a slave è concepito secondo lo stesso principio. Insieme al suo direttore della fotografia di sempre, Sean Bobbitt, McQueen costruisce il film come una serie di tableaux vivent della crudeltà, con riprese lunghissime spesso in campo totale, composte con grande eleganza in cui la sensualità degli sfondi si scontra contro l’orrore di ciò che avviene nella scena – un uomo appeso per i piedi per un giorno intero, una schiava stuprata ripetutamente o frustata fino a lasciarla moribonda.
L’inguardabilità è la sua scommessa – nel caso qualcuno avesse ancora dei dubbi che la schiavitù sia una cosa orribile, disumana.
Chiwetel Ejiofor è Northop, Michael Fassbender (attore talismano del regista) è il suo aguzzino peggiore, Brad Pitt il falegname canadese che lo salva.
«Quello che mi ha motivato», ha detto Mc Queen alla rivista Film Comment, «è stato un istinto di amore, una parola che non viene spesso usata in questo contesto. Volevo abbracciare il peccato della schiavitù, creare la premessa di una accettazione, non solo mia». Nelle recensioni universalmente entusiaste, alcuni critici hanno scritto di aver pianto. Anche 12 years a slave è un film che strilla «voglio l’oscar». Solo in modo più astuto. Meno ovvio. Con The Butler, però, ha in comune l’happy ending.