Venerdì 5 maggio la Corte suprema indiana ha confermato la pena di morte per i quattro imputati del «Delhi Gangrape case», in riferimento alla violenza di gruppo subìta dalla studentessa Jyoti Singh nel dicembre del 2012 a bordo di un autobus nei pressi di un centro commerciale di Delhi sud.

La ragazza, 23 anni, morì per le ferite inferte dai violentatori dopo due settimane di agonia. Soprannominata dai media nazionali «Nirbhaya» (l’indomita, la coraggiosa), la vicenda di Singh contribuì ad abbattere parzialmente il tabù delle violenze sessuali nel discorso pubblico indiano, portando in strada centinaia di migliaia di giovani a manifestare per la sicurezza delle donne nel paese.

Parallelamente, l’opinione pubblica indiana ha chiesto a gran voce una «punizione esemplare» per quattro dei sei violentatori arrestati dalle autorità della capitale indiana più di quattro anni fa: uno, minorenne all’epoca dei fatti e perciò rimasto anonimo, è tornato in libertà a fine 2016 dopo tre anni di carcere minorile; Ram Singh, maggiorenne, si suicidò in carcere dopo tre mesi di detenzione.

Per i quattro – Akshay Thakur, Vinay Sharma, Pawan Gupta e Mukesh – è stata confermata la pena di morte in primo, secondo e terzo grado, in linea col principio di eccezionalità seguito per comminare la pena capitale nel codice indiano (il crimine deve essere «rarest of the rare» per efferatezza e gravità). I giudici della Corte suprema, secondo quanto riportato dai media indiani, confermando il verdetto dell’Alta Corte di Delhi hanno dichiarato: «Se c’è un caso che merita la pena di morte è proprio questo. Alla lussuria umana è stato permesso di prendere una forma demoniaca». La Corte ha ritenuto che le aggravanti di crudeltà e sadismo superassero le circostanze mitiganti evidenziate dalla difesa, tra cui il comune background di povertà dal quale provenivano i quattro imputati.

Il governo in carica, attraverso la Union Minister for Women and Child Development Maneka Gandhi, si è detto soddisfatto della sentenza, facendo eco alle speranze della famiglia di Jyoti Singh, che ha auspicato a più riprese la pena di morte per tutti gli imputati.

L’avvocato difensore dei quattro, A.P. Singh, annunciando un ricorso al verdetto, ha spiegato che «Nessuno dovrebbe essere sentenziato a morte per mandare un messaggio alla società. Questo verdetto ha annichilito i diritti umani».

La violenza sessuale, in India, rientra tra i reati passibili di pena di morte solo dal 2013, per effetto di un inasprimento delle pene chiamato a gran voce proprio in seguito alla morte di Nirbhaya. Yakub Menon, condannato per terrorismo, è stato impiccato nel luglio del 2015 nel carcere di Nagpur, ultima pena di morte eseguita nella Repubblica indiana. Al momento, nel paese, i condannati a morte in terzo e ultimo grado di giudizio sono più di 20. Il presidente indiano Pranab Mukherjee, in carica dal 2012, ha respinto tutte le richieste di perdono arrivate negli ultimi cinque anni; durante il suo mandato sono state eseguite tre pene capitali.