La parola fine è stata scritta ieri. Omar Shakir, cittadino statunitense e direttore di Human Rights Watch (Hrw) in Israele e nei Territori palestinesi occupati, ha perduto davanti alla Corte suprema israeliana la battaglia legale che portava avanti con tenacia da oltre un anno contro la decisione del ministero dell’interno israeliano di deportarlo per un suo presunto sostegno al boicottaggio dello Stato ebraico. L’ultimo passo spetta al governo che ha messo fine nel 2018 al permesso di soggiorno di Shakir. Se l’esecutivo guidato da Benyamin Netanyahu approverà la sentenza della Corte suprema – e nessuno dubita che lo farà – il difensore dei diritti umani avrà 20 giorni di tempo per preparare i bagagli e partire. In quel caso Israele, sottolineava ieri Hrw, si aggiungerà agli Stati – Iran, Corea del Nord ed Egitto – che impediscono l’ingresso ai suoi rappresentanti. La sentenza dei massimi giudici israeliani cozza apertamente con la legge internazionale e riconosce priorità assoluta alle motivazioni politiche avanzate dal governo.

 

Il calvario di Shakir ha avuto inizio subito dopo l’annuncio, il 9 maggio 2018, che il ministero degli interni israeliano non avrebbe rinnovato il suo permesso di soggiorno sulla base di informazioni che vorrebbero il funzionario di Hrw «come un attivista del Bds a sostegno del boicottaggio di Israele in maniera attiva». Un’accusa nata dopo che Human Rights Watch ha invitato le imprese locali e internazionali a smettere di operare negli insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania per non essere complici delle violazioni delle risoluzioni approvate da vari organismi internazionali che sanciscono l’illegalità delle colonie costruite da Israele nei Territori palestinesi che ha occupato militarmente nel 1967. Hrw, con sede a New York, chiede lo stesso in molti altri paesi occupanti ma la Corte suprema afferma nelle motivazioni della sentenza che l’applicazione di questo principio volto a garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi non sarebbe altro che un appello al boicottaggio, sulla base della legge del 2017 che vieta l’ingresso alle persone che sostengono un boicottaggio di Israele o dei suoi insediamenti in Cisgiordania.

 

I giudici sostengono anche che Shakir avrebbe chiesto il boicottaggio delle colonie israeliane già prima di unirsi a Human Rights Watch. L’ong difende il suo funzionario e ripete di non aver mai chiesto il boicottaggio di Israele ma di avere sollecitato imprese ed aziende ad adempiere alle proprie responsabilità in materia di diritti umani ponendo fine ai legami con gli insediamenti illegali in Cisgiordania. Per la corte israeliana tutto ciò non sarebbe altro che un appello al boicottaggio di Israele mascherato dal rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario.

 

Non sono servite a nulla le proteste internazionali giunte nei mesi scorsi dopo le sentenze di deportazione di Shakir pronunciate da corti minori. Più parti hanno rinnovato la condanna della colonizzazione della Cisgiordania, tra cui 17 membri del Congresso Usa, il segretario generale delle Nazioni Unite, tre relatori speciali dell’Onu per i diritti umani oltre a numerosi gruppi indipendenti e associazioni accademiche. Appena qualche giorno fa, dopo la notizia che saranno confiscati altri 252 ettari di terre palestinesi in Cisgiordania destinati all’espansione degli insediamenti, l’Unione europea ha ribadito che la sua opposizione alla politica di colonizzazione che svolge Israele. Amnesty International teme il riflesso che la sentenza della Corte suprema e la deportazione di Omar Shakir avranno su altri gruppi per i diritti umani e per la loro capacità di continuare a operare in Israele e nei Territori palestinesi occupati.