In questi giorni al Teatro alla Scala tornano, dopo nove anni di assenza, Cavalleria Rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo, nell’allestimento ideato da Mario Martone nel 2011. L’accoppiata piace a ogni tipo di pubblico, il Salone del mobile rovescia su Milano ogni sorta di umanità e la platea del tempio della lirica, tra cellulari che squillano, flash che si accendono e neonati lasciati beatamente strillare si trasforma di colpo nel Circo Barnum. Tornando al palco, le idee con cui Martone fa sua la fatale accoppiata funzionano ancora assai bene. Sotto il bozzettismo verista che dispensava «squarci di vita» con messa in scena di popolani dai sentimenti elementari sia Cavalleria Rusticana che Pagliacci celavano (ma forse non più di tanto) un’ideologia smaccatamente borghese. In Cavalleria la vicenda è quella di una donna scomunicata perché si è concessa senza sposarsi e viene «giustamente» tradita da un uomo narcisista che sente di poter fare ciò che vuole, l’amante sfacciata di lui, il marito tradito di quest’ultima e l’immancabile duello per ripristinare l’onore di uno dei due uomini; in Pagliacci è lei a tradire lui e il finale è un femminicidio.
In Cavalleria Martone svuota la scena di ogni orpello, concentrandosi su pochi oggetti significanti: il bordello frequentato dagli uomini del paese, il crocifisso pasquale, le sedie che rimandano alla posizione (fisica, morale, sociale) di ciascun personaggio rispetto agli altri, la casa/chiesa assimilate, col coro sempre in scena posto (di fronte o di spalle) a indicare inclusione/esclusione, tolleranza/condanna verso la protagonista scomunicata e tradita. In Pagliacci fa da contrappunto il bordello a cielo aperto accanto a un cavalcavia sotto il quale si riunisce la corte dei miracoli di prostitute e clienti, teatranti e spettatori (l’accostamento non è casuale).

LE DUE PARTITURE, più sperimentalmente la prima, meno la seconda, prevedono che le voci siano modulate lasciandosi alle spalle le leziosità del bel canto, che le forme chiuse tradizionali (arie, duetti ecc.), private di struttura strofica, siano nuclei melodici che seguono lo svolgersi del dramma, che la carica sinfonica della musica nei punti cruciali le sovrasti. Il direttore Giampaolo Bisanti punta tutto su quella carica, modulando i suoni a tutta forza, perdendosi per strada molte finezze armoniche e talvolta qualche attacco singolo o congiunto dei cantanti, ma il pubblico gradisce. Elina Garanea è una Santuzza disperata e allo stesso tempo implacabile, padrona di tutti i registri della sua impervia tessitura; lo squillante Turiddu di Brian Jagde è la canaglia che piace tanto alle italiche donne; l’Alfio di Amartuvshin Enkhbat è potente ma statico; la Mamma Lucia di Elena Zilio, come sempre, abbaia. Fabio Sartori è ancora un Canio di prima classe; Irina Lungu è una Nedda molto bella, ma vocalmente po’ sbiadita; tuonante (forse troppo) il Prologo di Enkhbat, più convincente quando cede alle sguaiatezze di Tonio. Repliche fino al 5 maggio.