Un vertice preliminare per provare a dipanare una matassa che ad oggi appare sempre più inestricabile. L’incontro governativo sull’Ilva convocato ieri al ministero dello Sviluppo economico (Mise) ha visto riuniti intorno a un tavolo il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato, l’amministratore delegato dell’Ilva, Enrico Bondi e il presidente Bruno Ferrante (entrambi dimissionari), il sottosegretario allo Sviluppo economico, Carlo De Vincenti, il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola e il sindaco di Taranto Ippazio Stefano.

Intanto in serata si è appreso che una trentina tra capi reparto, capi squadra e capi turno dell’area a caldo dell’Ilva si sono dimessi dall’incarico, pur garantendo la sicurezza degli impianti. La decisione è stata presa dopo il provvedimento di sequestro del patrimonio dei Riva disposto dalla magistratura che ipotizza reati, oltre che nei confronti dei legali rappresentanti di Ilva e Riva Fire, anche per «dirigenti, capi area, responsabili dell’esercizio dello stabilimento di Taranto, di cui Riva Fire è società controllante».

Tornando all’incontro romano, il Mise ha diramato una nota: «Nel corso della riunione – si legge – sono state acquisite ulteriori informazioni sulla situazione aziendale. I rappresentanti dell’esecutivo e delle istituzioni locali hanno confermato l’impegno, nell’ambito delle proprie competenze, affinché l’attività dell’Ilva – nel quadro di una rigorosa attuazione dell’Aia – si svolga nel massimo rispetto dell’ambiente e della tutela della salute». Ma come ciò debba avvenire, e soprattutto con quali soldi, non è dato sapere. Anche perché il governatore Nichi Vendola pare a favore di un’amministrazione controllata da parte dello Stato che di fatto tagli definitivamente fuori il gruppo Riva dalla gestione del siderurgico, posizione espressa nei giorni scorsi anche dalla Fiom di Maurizio Landini.
Il sindaco Stefano ha chiesto garanzie sull’iter per le bonifiche e la certezza sul pagamento degli stipendi di giugno. Silenzio assoluto invece dal governo: oggi è previsto l’incontro con il premier Enrico Letta, che ieri ha fatto il punto della situazione Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti.

Nelle stesse ore a Milano si riuniva d’urgenza il Cda della Riva Fire, che ha puntato ancora una volta il dito contro la magistratura tarantina, rea a suo parere di aver bloccato l’attività del gruppo con il sequestro preventivo per l’equivalente di 8 miliardi di euro, ordinato dal gip di Taranto venerdì scorso. Nella nota del Cda, si esprime «forte preoccupazione poiché il provvedimento rischia di compromettere l’iter per l’approvazione del piano industriale 2013-2018 avviato da mesi, sia da Ilva che da Riva Fire, e che, supportato da adeguati test di “impairment” di esperti indipendenti nonché da analisi di sostenibilità finanziaria effettuate da primari “advisor”, era ormai prossimo al termine».

Sarà. Certo appare strana la concomitanza con l’azione della magistratura e la presentazione di un piano industriale atteso dallo scorso dicembre. Inoltre la Riva Fire sostiene che l’azione della magistratura avrebbe bloccato «il rispetto di tutti gli obblighi Aia sotto il profilo industriale e finanziario, sia l’approvazione del bilancio nei termini di legge in situazione di continuità aziendale». Strano. Visto che un piano finanziario a copertura degli interventi previsti dall’Aia non è mai stato presentato e l’azienda è già molto in ritardo nel rispetto di prescrizioni già scadute (sull’argomento si è svolto ieri a Taranto un incontro tra i sindacati e il Garante dell’Aia). Per non parlare del bilancio 2012 che, come dichiarò lo stesso Ferrante lo scorso 10 aprile, è stato rivisto dopo la pronuncia della Consulta che dichiarò costituzionale la legge 231/2012, la «salva-Ilva».

Scontate, dunque, le conclusioni del Cda: «L’interruzione di tale processo causata dal sequestro può invece portare a una situazione fuori controllo, anche con possibili ripercussioni occupazionali per circa 20 mila dipendenti diretti in Italia e almeno altrettanti nel cosiddetto indotto. Il Cda, seppur consapevole della incompatibilità dei tempi giudiziari con le urgenze dell’attività industriale, ha quindi dato mandato ai propri legali di impugnare i provvedimenti, auspicando in ogni caso che le autorità competenti possano intervenire per consentire la ripresa dell’iter interrottosi». La palla, dunque, è nelle mani del governo.