Dopo avere tolto i restanti scrupoli alle imprese in materia di inquinamento e di incremento della precarietà (ambiente e lavoro tornano assieme come vittime designate delle politiche governative) con i recenti provvedimenti economici di inizio giugno, Enrico Letta si è presentato al Consiglio europeo per riscuotere il dovuto consenso, ovvero nuovi margini di spesa per allentare la stretta del rigore. Malgrado i suoi cinguettii su Twitter, non pare che gli esiti siano stati convincenti neppure per il mainstream economico e la grande stampa, basti pensare alle stroncature di Sarcina sul Corriere della Sera e di Boeri su Repubblica. Se nei sondaggi il premier va forte, l’intellighentia comincia a prendere le distanze.
In primo luogo, ciò che è stato concesso all’Italia di fare è potere operare «scarti temporanei dalla traiettoria del deficit strutturale», per usare le parole di Barroso, ma «in ogni caso» e alla fine dei conti il disavanzo del 3% non potrà essere superato. Come questo miracolo contabile possa avvenire non è chiarissimo. Vi saranno probabilmente ulteriori istruzioni dettagliate, secondo lo stile pesantemente precettistico degli organi della governance europea. Ma già da adesso si vede che il famoso tesoretto aggiuntivo su cui il governo contava, anche per tranquillizzare le tensioni interne alla sua maggioranza, non si è mai materializzato. Infatti lo stesso Fondo monetario internazionale ci spiega, in base all’andamento della produzione nel nostro paese e dello stato dei nostri conti pubblici, che sarà assai dura mantenerci al di qua della soglia del 3% nel rapporto con il Pil per la fine del 2013.
In secondo luogo, anche supponendo per puro esercizio scolastico che questi calcoli siano troppo severi e che quindi siano possibili deviazioni momentanee dai vincoli senza pregiudicare il risultato finale, i famosi margini per il nostro paese sarebbero vincolati alla sua partecipazione a programmi di spesa decisi a livello europeo. Il cofinanziamento è cioè una scelta obbligata, se si vuole spendere qualcosa. Il che significa che sono gli organi europei e non il nostro governo (del Parlamento, dopo lo schiaffo sugli F35, ormai è persino inutile parlare) a decidere quantità e qualità degli eventuali investimenti. In questo modo la Commissione europea mantiene uno stretto controllo sulle politiche di investimento dei governi cui vengono concessi margini di bilancio. Anzi le decide direttamente.
L’ineffabile Commissario agli Affari economici, Olli Rehn, autore della prima lettera di istruzioni al nostro paese su come esercitare le presunte nuove facoltà, indica come prioritari gli investimenti nelle reti di interconnessione in Europa, e quindi torniamo nuovamente, come nel gioco dell’oca, alla casella della linea ad alta velocità Torino-Lione. Ma anche se dovesse prevalere un’interpretazione più estensiva del campo degli investimenti e questo si allargasse al Mezzogiorno d’Italia, resterebbe sempre la condizione del cofinanziamento, ovvero i progetti dovrebbero rientrare fra quelli previsti in ambito europeo. Mentre si sprecano promesse governative sulla ripresa di una politica industriale, che manca da diversi lustri nel nostro paese, intanto si vende come vittoria ciò che determina l’impossibilità stessa di una programmazione di nuovo tipo che sarebbe strategica per la fuoriuscita dalla crisi. La quale, particolarmente nel nostro paese, non è solo finanziaria.
Come si vede, siamo in una condizione molto diversa da quella prospettata da molti nel dibattito economico di questi anni di crisi. Ovvero la possibilità di non conteggiare gli investimenti produttivi nei calcoli riguardanti la determinazione del deficit, riprendendo la vecchia idea contenuta nel piano Delors del 1993. L’hanno chiamata golden rule, ma tra ciò è stato deciso nel vertice europeo di fine giugno non c’è nemmeno un lontano luccichio.
In terzo luogo, ed è forse il punto più grave, bisogna ricordare che nel 2014 entra in funzione il vincolo del pareggio di bilancio inserito in Costituzione da questa stessa maggioranza all’epoca del governo Monti. Cosa che Fassina continua a denunciare quale misura unica in Europa, fingendo di dimenticare che il Pd l’ha votata in blocco. Nell’anno che viene, secondo le previsioni ufficiali, dovrebbe comparire un segno timidamente positivo nella crescita del Pil. Cosa già discutibile. Ma a quel punto saremmo costretti a garantire il pareggio delle entrate e delle uscite. Neppure la contabilità creativa ci salverà.
Soggiacendo a queste regole non ci sono soldi non solo per politiche anticicliche, ma neppure per tenere fede ad alcuni punti programmatici del governo Letta. Non è tanto il parere del Fmi a revocare in dubbio la cancellazione dell’Imu, ma lo stato dei conti pubblici e i vincoli in precedenza contratti, che la destra finge di dimenticare e il Pd non smette di lodare.
Il Pdl avanza all’attenzione del premier la proposta, non nuova, di vendere buona parte del patrimonio pubblico al fine di abbassare il volume del debito pubblico. Ma le passate privatizzazioni non hanno portato alcun sollievo al livello di indebitamento. Anzi gli anni Novanta, che hanno visto nel nostro paese un volume monetario di privatizzazioni inferiore solo al Regno Unito della Signora Thatcher, non hanno affatto interrotto la corsa verso l’alto del debito pubblico. Consapevoli di ciò, anche se non lo dicono, gli esponenti del Pdl hanno avanzato la proposta di vendere una porzione di beni patrimoniali e diritti dello Stato, sia a livello centrale che periferico, a una nuova società di diritto privato nella quale la farebbero da padrone banche e fondazioni. Quest’ultima avrebbe il potere di emettere obbligazioni a 15-20 anni garantite da quei beni diventati di sua proprietà. Ciò non entrerebbe a fare parte del debito pubblico perché i titoli sarebbero emessi da un soggetto privato e lo Stato potrebbe incassare e diminuire così il debito pubblico medesimo.
Un’ideona? Niente affatto. Intanto si tratterebbe di capire di quali beni si tratta – senza scomodare qui la grande questione della tutela dei beni comuni – visto che anche la vendita delle caserme inutilizzate ha battuto la fiacca. Non solo, ma in molti casi è successo che l’Amministrazione pubblica privatasi dei beni immobili in suo possesso è stata poi costretta ad affitti insostenibili e l’intera operazione si è verificata del tutto antieconomica, al punto da consigliare il riacquisto dei beni dismessi. Inoltre non è affatto detto che le obbligazioni emesse dalla società privata siano in grado di reggere il confronto con il mercato. Potrebbero subire un deprezzamento in tempi molto rapidi portando al fallimento l’intera operazione, poiché al momento di entrare in possesso della parte di beni relativa alla scadenza del prestito obbligazionario quei titoli potrebbero avere perso gran parte del loro valore.
Tanto varrebbe allora procedere più seriamente e istituire una tassa patrimoniale ordinaria e invece puntare su una riqualificazione dei beni pubblici immobiliari anche attraverso un cambiamento di destinazione per dare sollievo alle esigenze abitative e di spazi pubblici agibili per la socialità. Ma tutto questo è tabù in questo quadro politico e anche l’opposizione è scarsamente ricettiva su questi temi.
Siamo arrivati ormai agli sgoccioli. Alla vigilia dell’entrata in vigore del pareggio di bilancio e del fiscal compact è sempre più evidente che la tattica delle concessioni, degli strappi tollerati, delle contabilità creative non hanno il fiato corto. Non c’è l’hanno affatto. Se si vuole evitare che l’Europa, e non solo la sua moneta, imploda, bisogna che i paesi più in difficoltà chiedano, come condizione determinante la loro permanenza nella Ue, la revisione radicale di quei vincoli e di quei trattati, antichi e recenti, che hanno dimostrato solo di aggravare le conseguenze sociali ed economiche della più grave crisi di tutti i tempi del capitalismo europeo.