Nora Helmer, la protagonista di Casa di Bambola di Henryk Ibsen, è un personaggio di assoluta primadonna, spesso «incaricata» di rivendicazioni femminili, e sempre destinata (da 140 anni fa, quando è stata scritta) alle grandi signore della scena, ultime per grande appeal Jane Fonda e Mariangela Melato. Per quest’ultima, una decina di anni fa, Luca Ronconi aveva scelto la formula di Nora alla prova di Casa di Bambola, triangolando il testo con la prospettiva obliqua di chi ne doveva essere protagonista. Ma ora è ad un altro grande maestro della regia contemporanea, Massimo Castri, che sembra ispirarsi Filippo Dini, protagonista e regista del testo di Ibsen (e che a Castri aveva attinto anche per il suo Così è se vi pare pirandelliano), appena partito da Napoli per la tournée, dopo il debutto a Torino, il cui teatro nazionale ha realizzato la produzione (prossime tappe a dicembre Bolzano, altro coproduttore, e Pistoia).

LO SPETTACOLO è di grande respiro visivo: un enorme e curatissimo soggiorno borghese, con al centro un albero che sfonda il soffitto (quasi facendo supporre lì sopra una qualche cupola di San Pietro), e mobili, porte e prospettive di stanza che sono il mondo della «felice» famiglia Helmer. In quei due giorni natalizi in cui si snoda l’azione (e il processo interiore di Nora) vediamo subito la felicità borghese della famigliola, lui in un salto di carriera e lei inarrestabile moglie e madre affettuosa. Ma altrettanto evidente, a gravare su quell’idillio sessuale e formale, ci sono anche i mali congeniti e neanche tanto segreti di quella borghesia capitalista ubriaca di successo: l’abiezione di un antico creditore (Andrea Di Casa) che ora ricatta lei per approfittare della ascesa dirigenziale di lui. E anche l’apparizione di una vecchia amica di lei di lontana memoria (Eva Cambiale) suona quasi come improvviso ma normale accidente.

MA RISALTA SUBITO anche la novità della lettura di Dini: quel marito (impersonato dallo stesso regista) non è il solito patriarca dominatore e spocchioso cui siamo abituati: è lucido e comprensivo, innamoratissimo e affettuoso verso la moglie e il suo corpo, convinto semplicemente del proprio ruolo di comando, in casa come fuori. Nora (Deniz Ozdogan) infatti cerca di assecondarlo, tentando solo di nascondere l’antica colpa (a fin di bene) che la rende ricattabile dal bieco creditore.
Anzi tra regali di natale, cambio di abiti sfolgoranti, e perfino una tarantella scatenata (Ibsen terminò di scrivere il testo durante un soggiorno sulla costiera amalfitana), cerca in tutti i modi di assecondare il ruolo che la società e in fondo anche il marito comprensivo le impongono. I bambini di fatto invisibili, affidati a tempo pieno alla governante (Orietta Notari, presente per altro anche nella versione ronconiana). In un crescendo «dialettico» tra i due coniugi si consuma il fulcro della vicenda. Dini è assai bravo a rendere la generosa capacità di incomprensione di lui; Deniz Ozdogan si rivela qui attrice completa e profonda (a parte qualche guizzo forse eccessivo, quando si dimena come morsa davvero da una taranta in terra di Puglia, e subito dopo scioglie i capelli biondi alla Veronica Lake).

LO SPETTACOLO è comunque importante: il dissidio tra maschile e femminile, pur restando fedele all’impianto ibseniano, ci porta dentro conflitti e analisi che risuonano (e stonano) ancora oggi. Non scandalizza più lo spettatore attuale l’uscita di scena di lei, e neppure l’incomprensione ostinata di lui. Il mondo davvero nuovo resta ancora da inventare. Quasi per tutti.