Il nuovissimo e costosissimo Museo delle scienze di Trento deve ancora aprire al pubblico, ma una cosa è certa: la montagna, stavolta, non ha partorito un topolino. A guardarlo da fuori il Muse, com’è stato ribattezzato, sembra anzi un’altra montagna, con quel profilo aguzzo e i tetti spioventi disegnati da Renzo Piano. L’architetto genovese ha applicato in pieno la filosofia zero gravity – strutture leggere e ariose che sembrano galleggiare nell’aria – per riqualificare un’area dismessa dalla Michelin. Il Trentino si regala così un altro gioiello dopo il Museo di Arte Moderna (Mart) di Rovereto progettato dall’archistar ticinese Mario Botta. Anche nel caso del Muse, dunque, il contenitore vale almeno quanto il contenuto, cioè i 3700 mq di esposizione permanente e i 500 destinati alle mostre temporanee.
Per l’allestimento, che da solo vale quattro milioni di euro, il direttore del Muse Michele Lanzinger ha evitato una rappresentazione enciclopedica delle conoscenze scientifiche, puntando piuttosto sull’interattività e l’attualità che caratterizzano ormai tutti i principali musei scientifici contemporanei. Il museo privilegia i saperi rilevanti per la scelta di un modello di sviluppo sostenibile, come la conservazione della biodiversità, lo studio dei mutamenti climatici o la protezione dalle catastrofi naturali. La sostenibilità ambientale è un principio applicato nella realizzazione dello stesso edificio, con l’impiego di materiali a basso impatto e di pannelli fotovoltaici e sonde geotermiche per l’alimentazione energetica.
L’esperienza del visitatore sarà avvolgente: il museo ospita esempi reali dei vari ecosistemi terrestri, da un vero fronte di ghiaccio a una foresta pluviale di 600 metri quadrati. Le tecnologie multimediali, tra cui una simulazione dell’atmosfera terrestre sviluppata dall’agenzia statunitense per gli oceani e l’atmosfera, faranno il resto. Ma non mancano i classici pezzi dei musei di storia naturale, dagli scheletri preistorici sospesi agli animali imbalsamati. Un settore del Muse è dedicato alla presentazione delle piccole imprese trentine ad alto tasso tecnologico. Infine, nel FabLab (un laboratorio per la fabbricazione elettronica, collegato con la rete degli oltre 60 Fablabs sparsi nel mondo) gli amanti della robotica fai-da-te avranno a disposizione uno spazio per il coworking: quasi scontata la presenza delle stampanti 3D con cui realizzare oggetti secondo il principio dell’open hardware, di gran moda tra i nuovi nerd.
Oltre a collaborare, al Muse si può anche litigare, volendo: sono due i tavoli interattivi intorno a cui i visitatori si confronteranno sulle principali scelte politiche da operare in ambito scientifico. Per non rimanere una semplice testimonianza, i «tavoli» dovranno essere affiancati da esposizioni in grado di raccontare gli aspetti più controversi del lavoro dei ricercatori, oltre alle loro scoperte. È il segreto delle mostre che «funzionano», secondo gli esperti. E ce n’è bisogno, nell’Italia in cui si sprecano tre milioni di euro per «sperimentare» le staminali del guru Vannoni in barba al parere unanime degli scienziati di tutto il mondo. D’altronde, il dibattito scientifico a Trento è di casa, visto che qui Massimiano Bucchi ha fondato il centro di ricerca «Observa», dedicato al rapporto tra scienza e società .
Del progetto colpisce soprattutto l’integrazione nell’habitat sociale, economico e culturale circostante. Trento, infatti, già ospita l’università migliore d’Italia per la qualità della ricerca (secondo la discussa graduatoria dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca) e la capacità di attrarre investimenti privati – diluvia sempre sul bagnato. La affiancano il centro ricerche per la bioinformatica della Microsoft e le fondazioni Kessler e Mach, attivissime nella ricerca applicata in ambito nazionale ed europeo.
In questo contesto, il Muse assumerà un ruolo di collegamento tra innovazione scientifica e il pubblico, un ruolo cruciale quando, in tempo di crisi, si investono cifre importanti in settori senza un ritorno economico immediato come la cultura e la ricerca. Ma sarà esso stesso motore di sviluppo, visto che una quarantina di biologi e geologi faranno del museo un vero ente di ricerca.
Le poche voci critiche in circolazione sottolineano i costi faraonici dell’opera: la progettazione e la realizzazione del Muse sono costate 70 milioni di euro, e per la sua gestione si spenderanno circa sei milioni di euro l’anno. Le cifre non entusiasmanti sulle presenze al Mart di Rovereto suggeriscono prudenza. Così come le polemiche e le inchieste intorno ad un’altra maxi-opera trentina, il cantiere del nuovo ospedale appaltato ad Impregilo, raccontate proprio da il manifesto il 24 luglio. Nel frattempo, le altre attività culturali della provincia quest’anno hanno subito tagli consistenti, pari a otto milioni di euro sui 54 messi a bilancio nel 2012.
Se le notevoli aspettative non saranno deluse, il Muse verrà a colmare un vuoto recente: il rogo della Città della Scienza di Napoli, infatti, aveva cancellato l’unico esempio nazionale nel genere, sorto in un contesto diversissimo e ben più insidioso, come i fatti hanno dimostrato. L’incendio di Bagnoli, è poi emerso, era solo l’ultimo atto di una lunga crisi caratterizzata dall’azzeramento dei contributi pubblici e da lunghi mesi senza stipendio per i dipendenti.
Le premesse qui sembrano assai diverse: una provincia autonoma come quella trentina, dotata di speciali capacità di investimento, sembra in grado di operare una reale politica scientifica e culturale di cui si sentirebbe un gran bisogno anche in altre aree del paese. E in barba al principio di sussidiarietà, che suggerirebbe di utilizzare i soldi dei cittadini solo per colmare i vuoti lasciati dal mercato, a Trento le imprese più lungimiranti preferiscono affiancarsi all’investitore pubblico anziché rubargli il posto.
Un contrasto così stridente impone qualche riflessione sulle politiche di innovazione ai tempi dell’austerity.