La comunità dei narratori
Biennale di Lione La rassegna nella città francese prova a tirare le fila di linguaggi artistici dopo anni di erratiche sperimentazioni . E il sofferto sguardo sul colonialismo può aprirsi a una indedita e conturbante apertura sul futuro
Biennale di Lione La rassegna nella città francese prova a tirare le fila di linguaggi artistici dopo anni di erratiche sperimentazioni . E il sofferto sguardo sul colonialismo può aprirsi a una indedita e conturbante apertura sul futuro
Raccontami una storia, dice il piccolo principe all’aviatore piombato nel deserto con il suo aereo in panne. Antoine Saint Exupéry è nato a Lione ed è da qui, da questo desiderio di récit, di narrazione totale che si dipana il filo della dodicesima Biennale di arte contemporanea. Si può finire intrappolati nelle fiabe, oppure uscire in strada con i griots africani, le orecchie bene aperte per l’ascolto.
In un mondo connesso eppure sfilacciato, dove la comunicazione è così veloce da somigliare a un singhiozzo improvviso, un lampo scritto subito inghiottito dalla rete, esiste ancora una qualche possibilità di affabulazione, di un’oralità condivisa? È questa, in un certo senso, la domanda che si pone il curatore islandese della mostra, Gunnar B. Kvaran. E l’esito non è così scontato, soprattutto quando si tenta di tessere una trama che non sia solo impressionistica, dopo anni di sperimentazione che rotolava verso il grado zero del linguaggio. Bisogna saper costruire una impalcatura di «contenimento», una regia invisibile entro cui far muovere le maglie – allargandole o stringendole – di quel possibile «discorso» che spinge sui bordi le norme linguistiche per condurle altrove, fuori sentiero.
L’intento sotteso alla Biennale di Lione 2013 (visitabile fino al 5 gennaio 2014) l’ha dichiarato molto chiaramente – e ridendo – l’artista norvegese Ann Lislegaard, mentre si affrettava a dipingere di nero gli ultimi pezzi della sua installazione prima dell’inaugurazione: «Non si possono appiattire le storie con la rigidità delle parole, è necessario imparare a uscire dai confini, avere il coraggio di inventare nuove strutture narrative, anche sensoriali e percettive». L’ha fatto attraverso un gufo, presenza oracolare e premonitrice che invita a viaggi notturni e perturbanti. Non è stata la sola ad aver interpretato l’invito curatoriale sgusciando verso il sogno: l’americano Jason Dodge ha lasciato in una sala di museo alcuni cuscini sparsi; sono reperti, tracce fisiche di chi vi ha dormito in preda all’attività onirica (un sindaco di una piccola città, medici, bambini). Le nuvole, il cosmo, il mondo celeste in contrapposizione a quello pesante e terrestre sono gli elementi del ricordo struggente di Tavares Strachan (Bahamas) che, in uno spazio lattiginoso, dedica il suo lavoro al fantasma della prima astronauta, Sally Ride. L’esaltazione del «lato b» della razionalità, con le sue misteriose fantasticherie a occhi chiusi e l’approdo ai recessi dell’inconscio è qualcosa che ha risuonato anche in Laguna, nel Palazzo Enciclopedico voluto da Massimiliano Gioni. È un modo come un altro per resistere all’evanescenza mediatica, per ritrovare una serialità dell’esistenza, una risonanza con l’altro da sé.
Le forme della condivisione
Kvaran, insieme al direttore artistico della manifestazione di Lione Thierry Raspail, ha lanciato la sua sfida contando su tre avverbi temporali che danno il titolo all’esposizione. Con Entre-temps, brusquement, et ensuite ha raccolto l’adesione di settantasette artisti e li ha disseminati in cinque sedi: la consueta e bellissima Sucrière, il museo Mac, la Fondazione Bullukian e new entry, la chiesa di Saint Just e la Chaufferie dell’Antiquaille, edificio industriale degli anni Trenta oggi recuperato.
In più, in una città che sta ridisegnando il suo skyline con quartieri popolari affidati ad architetti «ecosostenibili» e che vanta più di centocinquanta istituzioni dedicate alla cultura, la Biennale ha bussato alle porte dei suoi abitanti e li ha introdotti sul palcoscenico, chiedendo loro di ospitare il creatore e la creazione, in una fusione densa di germinazioni future. Opere in residenza per «fare comunità» e una costellazione di eventi – spettacoli, performance, conferenze, musica, cinema – sono le due diramazioni cheaccompagnano un percorso work in progress.
Ma chi racconta cosa in questa kermesse dell’arte? Se si escludono i numi tutelari posti a guardiani dal curatore – Matthew Barney, Robert Gober, Yoko Ono, l’ottantenne Erró, Jeff Koons – i temi sono quelli eternamente umani: c’è la favola, l’utopia, la ruvidezza della realtà, l’angoscia della guerra, l’identità incerta, l’ansia di classificazione, la rincorsa della storia, l’ossessione dell’oblio. E i migliori storytellers vengono dall’Asia, dall’America Latina e dall’Africa. Non sarà così casuale questa loro «emergenza» affabulatoria.
Yang Fudong (nato a Pechino nel 1971, vive a Shanghai) propone addirittura un film che verrà girato tra quest’anno e il 2015: la biografia di una ragazza, Ma Sise, che studia da attrice. I piani – realtà e fiction – sono indistinguibili: la verità dell’interpretazione, la «credibilità» dei gesti e dei pensieri della protagonista conquistano un ruolo primario nella conduzione del suo racconto.
Il nipponico Nobuaki Takekawa (1977, Saitama) trasporta il visitatore in mezzo all’oceano, su un’isola di pirati e su una nave in cui a remare sono anonimi schiavi. Non c’è nessun tesoro nelle profondità marine, ma sulle carte nautiche vengono segnalati gli incidenti nucleari e le loro conseguenze. Un’intera stanza «narra» la follia degli armamenti atomici, mentre i marinai sono privi di parola, meri corpi di fronte al capitano persecutore. È una delle installazioni più potenti della Biennale, se considerata sotto il riflettore macabro di Hiroshima, Nagasaki e Fukushima. «La nave – dice Takekawa – prosegue la sua corsa verso una direzione sconosciuta, oscura… È venuto il momento per tutti noi di fare un passo indietro, uscire dalla cartografia ideologica di modernizzazione e sviluppo economico e lanciarci in una nuova avventura».
Nella chiesa di Saint Just si trova un’altra imbarcazione che va a vele spiegate, snocciolando un albero genealogico assai bizzarro che comprende Rosa Parks e Cindy Sherman. Si tratta di Victory, un’antica galera inglese del XVIII secolo che sottocoperta tiene segregate centinaia di lavoratrici clandestine: le pin up Barbie. Tom Sachs (1966, New York) affronta così la tratta degli schiavi e le contraddizioni della democrazia americana, con una buona dose d’ironia a supportare quella interruzione di civiltà.
Anche Meleko Mokgosi (1981, Francistown, Botswana, vive a New York) sfoggia tutto il suo umorismo per ripercorrere, con alcuni slogan visivi, le tappe del colonialismo. Realizza una pittura tradizionale, usando i cliché figurativi in una sceneggiatura in otto capitoli, un diorama intitolato Pax Kaffraria – il nome deriva dalla colonia nera britannica nell’Africa australe – che concorre alla falsa costruzione dell’immagine «indigena». E se la sudafricana Dineo Seshee Bopape (1981) usa più linguaggi in una caotica installazione per mandare in onda una colonna sonora resistente all’apartheid, Mary Sibande (Barberton, 1982) torna al suo personaggio Sophie con una colata di color porpora, la tinta che negli anni Ottanta indicava alla polizia sudafricana i potenziali sovversivi.
Ma sono tre giovani artisti brasiliani a offrire al pubblico le narrazioni più fluide, un «novellare» pieno di contrappunti. Gustavo Speridião (Rio de Janeiro, 1978) ha una sua versione della Great Art History. Costituisce un archivio in soggettiva, con opere e grandi star della cultura miscelati a frames della cronaca. Cambia i connotati alle fotografie ritagliate qua e là: bambini focomelici che scrivono con difficoltà diventano un modello Bauhaus e i Beatles si trasformano in Michelangelo, Leonardo, Raffaello e Donatello, mentre un piccolo amazzonico è un vero Gauguin.
Resti dell’innocenza perduta
Paulo Nazareth (1977, Governador Valadares) dispone a terra i suoi Cadernos de Africa: sono oggetti raccolti lungo la strada percorsa a piedi da Johannesburg fino a Lione, migliaia di chilometri macinati in omaggio agli itinerari della schiavitù. Cose povere e minimali, bustine, saponi, mozziconi di sigari, immagini sacre, frammenti di pubblicità si allineano sul pavimento spoglio, un «museo dell’innocenza» perduta e nostalgicamente ricercata. Jonathas De Andrade (Maceló, 1982) illustra invece un’epopea della brasilianità, come dice l’artista stesso. Va in scena su grandi manifesti, disegnati e decorati in uno stile anni Cinquanta, la catena di produzione del «négo bom», caramella di zucchero di canna popolarissima nel nord del paese. In quel dolce confezionato col sudore e la vita di molti africani nei campi e nelle fabbriche è incartato anche il racconto della dominazione coloniale. De Andrade trae da quelle «candies» una enciclopedia, con testi e immagini che rompono gli argini di un Brasile che l’immaginario vuole oggi multiculturale e armonioso. Alla stoica fatica degli schiavi delle piantagioni risponde il collettivo cinese fondato da Xu Zhen «Made in Company». Nel geniale Physique of Consciousness Museum ordina in teche scientifiche i movimenti e gli esercizi fisici: una gestualità comune e grottesca che si ritrova nel quotidiano così come nei rituali religiosi e marziali. Il récit contemporaneo è compiuto. Non c’è nulla di divino, l’umanità tutta è caratterizzata da una orizzontalità delle sue pratiche.
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