I messaggi scorrono veloci, arrivano da ogni parte del mondo, Colombia, Giappone, Argentina, è come se il «Lockdown» globale si fosse interrotto (virtualmente) allo stesso momento dentro la cornice di quell’immagine in diretta Instagram tra cuori e dichiarazioni di amore incondizionato. E poco importa se non tutti (molti) ammettono di non capire il francese chiedendo una traduzione futura: nessuno va via perché lì, in diretta, c’è Jean Luc Godard, iconico più che mai col suo sigaro, il sorriso che accompagna le confidenze sulla memoria – «Perdo non tanto le parole ma l’istante, se esco per andare alla coop lungo il tragitto penso alle pere che poi svaniscono… » – e una dolcezza che illumina lo schermo più del sole primaverile.

L’incontro organizzato dall’ Ecal, la Scuola di arte e design di Losanna – e condotto da Lionel Baier – è diventato subito un evento epocale prima che accadesse. E se in tempo di confinamento l’online è l’unico mezzo con cui incontrarsi, per il regista è ormai un’abitudine «collaudata», due anni fa al Festival di Cannes dove era in concorso con Le livre d’image aveva parlato con la stampa via FaceTime, anche se i social network ammette serenamente di non utilizzarli affatto.

ECCOCI nella sua casa di Rolle, sulle rive del lago Lemano, dove vive insieme alla sua compagna, la regista Anne Marie Miéville. È la Svizzera da cui era originaria la sua famiglia, figlio di un medico (che ritornerà talvolta nella conversazione), Godard però è nato a Parigi e ci tiene a precisarlo non si considera «un regista svizzero» ma francese. All’interlocutore leggermente stupito spiega, «Nel Vaud dove abito all’inizio della Rivoluzione francese c’è stata una rivolta di soldati svizzeri contro i superiori bernesi duramente repressa, quelli rimasti in vita sono stati accolti dai rivoluzionari bretoni».

JLG appare nel suo studio (diverso da quello allestito in modo permanente alla Fondazione Prada di Milano), nella porta aperta alle sue spalle si vede ogni tanto Fabrice Aragno (il suo direttore della fotografia) col quale sta lavorando al prossimo film. In terra quando l’immagine si allarga ci sono ritagli, schizzi, disegni (dello stesso JLG): di cosa parlerà questo film a venire? Di musica – dice (Notre Musique?), che nei suoi film è sempre un elemento centrale, dell’opera, di Bizet e della Bohème insieme ai frammenti musicali di film del passato.

E poi chissà perché le parole non servono a spiegare un film, sono le immagini che parlano, di parole ne abbiamo già troppe: «I politici, i capi di stato affogano nelle parole» dice. Lui la sua sceneggiatura la scrive a mano, spesso non riesce a rileggere quello che ha scritto. «Perciò lo riscrivo, non è mai la stessa cosa, ma come si dice solo chi cancella può scrivere…».

Parola e immagine dunque. In cui alla «lingua» che fissa il mondo col suo alfabeto, le curve della pandemia che mostrano l’andamento del virus secondo una progressione capitalista come qualsiasi altra progressione di crescita («Fanno un grafico a zig zag non una curva») – si oppone «il linguaggio», l’unione di parola e immagine di cui talvolta il cinema è ancora capace rendendo possibile uno spazio di libertà nel potere della tecnologia.

«È UN PO’ presto per fare un film su questa crisi ma la parola virus deve essere pronunciata almeno una o due volte: è il virus della comunicazione, moriremo di questo» dice Godard che al «cineasta-medico» con una diagnosi pronta su ciò che farà predilige la passione, l’emozione dei dubbi, il lavoro nella notte. «La televisione fabbrica oblio, il cinema dei ricordi». Lui ne guarda poca di tv, raramente quella pubblica, qualche vecchio film, e soprattutto i canali di informazione: «A volte ne prendo dei frammenti per una sceneggiatura ma sarebbe impossibile trovare un attore capace di sembrare uno speaker che accetti di essere filmato in una finzione che è la vita stessa. Fa pensare un po’ a La voce umana di Cocteau.

L’informazione cerca di dire tutto sul virus del quale si sa poco, fino a che il virus più pericoloso diventa appunto quello della comunicazione». È quel vero/falso che attraversa la riflessione delle sue immagini, al di là delle definizioni di genere «finzione» e «documentario» interrogando il significato stesso di «fake news» nell’immagine come nella parola, il gesto di «raccontare» la realtà che non può essere copiarla, fotografarla per riprodurla?

«L’idea di fake news è oggi in una frase o in una parola che la lingua non permette o permette troppo. Diciamo che qualcosa che non è vero atomicamente non è falso». «Sta a noi scoprire se le persone che leggono in tv certe parole dicono altro, una parola può contenere un episodio della storia ma come diceva Bresson più che riprodurre si devono unire le cose che non hanno rapporto tra loro». «La sera ascolto i sogni, passano attraverso luoghi e forme che saranno per noi sempre misteriosi». Il cinema, ancora?