Come fondale, già suggerita al lettore dal titolo, la cittadina dove, nel 1561, Filippo II fece costruire uno dei più fastosi palazzi reali di Castiglia; un luogo dello spirito come già la Sierra de Gredos ne Le immagini perdute (2002), la provenzale montagna di Saint-Victoire di Nei colori del giorno (1980) o la serba Porodin di La notte della Morava (’08). Sul proscenio, due personaggi, un uomo e una donna, del cui legame non è dato conoscere la vera natura. Quel che si sa lo si può solo presumere e, in qualche modo, escogitare dalla grammatica del loro dialogo estivo. La breve didascalia che li introduce ce li presenta seduti a un tavolo, sulla terrazza di un giardino, lui vestito di scuro lei di chiaro, in ascolto, «come se ad ogni sussurro degli alberi trascorresse un’ora, o un’intera giornata».

Ottimamente curato da Alessandra Iadicicco, I bei giorni di Aranjuez (Quodlibet, pp. 96, € 14,50) – apparso in originale nel 2012 e quest’anno trasposto al cinema da Wim Wenders – è un testo che più emblematico non si potrebbe dell’ultima maniera (o periodo) dell’austriaco Peter Handke. Temi, eco, ricorrenze e citazioni interne dalle opere dei decenni che lo precedono confluiscono, tutti insieme, in un parlare fitto ma non serrato in cui ogni battuta si dispiega e, allo stesso tempo, si concentra come una epifania. Ma epifania di cosa esattamente?

Per capirlo si deve forse partire da un elemento marginale del testo e poi mettere questo in relazione con la posizione d’autore (rispetto alla sua funzione e alla sua stessa opera) che Handke è andato via via radicalizzando nel tempo attraverso la sua esperienza letteraria e che ormai in nessun modo è scindibile dagli esiti che hanno preso, di volta in volta, la forma di un personalissimo ragionare sull’espressione romanzesca come terreno d’elezione del metafisico da un lato e diario pubblico dall’altra. L’elemento marginale, dunque, si può trovare sulla soglia dei Bei giorni, in quella iniziale, S., cui è dedicato e dietro la quale non si cela che la stessa Sophie Semin, l’attrice francese da più di venticinque anni moglie dell’autore di Pomeriggio di uno scrittore (1987, appena ristampato da Guanda); questo lungo dialogo – originariamente steso in francese e poi tradotto in tedesco dallo stesso Handke – nasce infatti per lei e, pertanto, come nota proprio Iadicicco, può essere letto, senza per ciò peccare di indiscrezione, «come una misteriosa confessione personale». Pure, il discorso amoroso è anche un tentativo di ricucire lo strappo che si crea tra l’arte e la vita, laddove la prima, tanto nei libri della distanza e del ritorno (a cavallo tra anni ottanta e novanta) che in quelli, successivi, della sintesi (In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa, 1997, o Il grande evento, 2011, di recente tradotto da Claudio Groff per Garzanti), sembra destinare colui che vi si misura a una sorta di coatta solitudine creativa; la vita, invece, come condivisione e scontro (tra due individui o tra moltitudini indistinte), costringe l’essere umano a misurarsi con un brusio silenzioso che ne disperde la voce riducendo la lingua a mero strumento di comunicazione: pura retorica.

Per scongiurare questa impasse dialettica (arte contro vita) si deve allora, per Handke, tornare all’origine del racconto, incalzando la memoria nel presente ma senza pressione, proprio come l’uomo fa con la donna in un pomeriggio d’estate ad Aranjuez: pause e considerazioni sul ciclo naturale si alternano alle domande cui lei risponde rievocando le tappe della propria educazione sentimentale e la coppia, come sintesi degli opposti, come unità, si riscopre possibile esattamente nell’oscillazione tra ascolto e confessione perché, dice la donna, «senza domande non posso proseguire. Senza domande sono cieca e muta. Chiedimi». E l’uomo chiede, infatti, chiede fin quando le risposte non diventano altri interrogativi e a questo punto è lui a raccontare, e il ritmo con cui si alternano i capovolgimenti di posizione aumenta, ma sempre rispettando le prescrizioni che i due personaggi si impongono («un dialogo in cui rispondi solo sì va contro i patti»; e, ugualmente, «una battuta del dialogo ridotta solo a un no va contro i nostri patti»; o, ancora, «Ehi, niente azione! Non si era forse pensato così? Nessuna azione – nient’altro che dialogo»).

La donna parla dei suoi uomini, della sua esistenza di regina, del suo passato, l’uomo parla di Aranjuez, dei fiori, dell’autunno, del suo aver abdicato, del non volere essere il suo re perché il motivo per cui la femmina del corvo «strilla, quando è in estasi» è che «ciò che si ama lo si è perso fin dall’inizio, e per sempre, anche se non lo si è perso» (difficile non pensare a Borges: «solo ciò che è morto è nostro, è nostro solo ciò che abbiamo perduto»); tuttavia non si può smettere di amare, ma questa coazione a ripetere (altro concetto cardine di Handke) non porta che a una considerazione: «non esiste un amore felice. Il n’y a pas d’amour heureux. No hai amor feliz. Solamente la loba famelica. Nient’altro che la lupa famelica». Ed è su questo dispaccio che, invece di separarsi, l’uomo e la donna pronunciano per la prima volta i loro nomi, Fernando e Soledad (sì, soledad, esattamente, ovvero solitudine) e, nella nudità, svaniscono, al pari della luce e della scena, lentamente. Come lentamente, ne Il grande evento, il protagonista del romanzo, un famoso attore che si risveglia una mattina nella casa di campagna della donna con cui ha passato la notte, si avvia verso il paese prospicente dove, la sera, sarà celebrato dalla comunità locale.

Romanzo di una lunga passeggiata, insomma, così come i Bei giorni è la commedia di un unico pomeriggio; entrambi declinazioni di quel concetto di durata cui Handke ha dedicato, trent’anni fa, il poemetto Canto alla durata, appena ristampato nella «bianca» Einaudi (a cura di Hans Kitzmüller, pp. 64, € 10,00), chiosando significativamente «la durata non stravolge, / ma rimette al posto giusto. / Senza esitazione rifuggo la luce abbagliante dell’accadere quotidiano / e mi riparo nell’incerto rifugio della durata». Ma mentre nel dialogo di Fernando e Soledad l’azione si svolge, come detto, in maniera epifanica, grazie all’alternarsi delle voci, nel romanzo quasi non c’è personaggio, non c’è azione, e ogni frase si tramuta in una allegoria che viene incontro al suo protagonista in maniera lieve: l’aria diventa viepiù rarefatta, il tono misterico ed evocativo; tanto che la traiettoria, perfetta e circolare, si chiude stavolta non con uno svanire ma con una presenza e con un desiderio che si sovrappongono al dissolversi liminare dei Bei giorni: «Lui rimase lì, e rimase, e rimase. Terza fame. Quella grande. Tempo per la seconda Dolce corsa. E invece: il Grande evento».