Let Us Persevere in What We Have, la frase presa dal Beckett di Aspettando Godot, dà il titolo al nuovo film di Ben Russell, realizzato insieme a Ben Rivers con cui sta anche finendo di montare il lungometraggio A Spell to Ward off the Darknes. E che sia gara al Fid (concorso internazionale) è quasi nelle cose, il film nasce infatti proprio qui, tre anni fa, al FidLab, il laboratorio dove progetti «work in progress» selezionati da tutto il mondo, si presentano a coproduzioni possibili (al FidLab è passato anche il film a cui sta lavorando Gianfranco Rosi, Holy Gra, e il film sulla Russia di Gianikian-Ricci Lucchi).

Russell e Rivers vinsero con A Spell to Ward off the Darkness, ma come racconta nel quotidiano del festival lo stesso Russell (che non è a Marsiglia perché lavora a un nuovo film), siccome per quel progetto le spese vive (voli e noleggio delle telecamere) erano stati pagati, lui e Rivers hanno deciso di investire i soldi del premio in un progetto parallelo. Ecco dunque Let Us Persevere in What We Have, girato sull’isola di Tanna, nell’arcipelago di Vanuato, 500 km a est della Nuova Caledonia. Colonia francese e britannica, l’identità dell’isola, che è abitata da melesiani, è stata radicalmente influenzata dalla presenza americana (migliaia di soldati nelle basi militari) durante la seconda guerra mondiale, e anzi, come dice ancora il regista, gli americani a un certo punto sono diventati una alternativa alla repressione dei colonizzatori. «Gli Stati uniti vengono percepiti come una sorta di potenza benevola, e questa immagine continua a essere profondamente radicata ancora oggi in tutti l’arcipelago. E questo per noi è stato un po’ il punto di partenza». L’oggettività che però non è lo scopo principale di questa ricerca, che privilegia invece l’osservazione tattile, fisica, delle persone e dei luoghi, della natura e della cultura.

Russell ha nel suo background gli studi di antropologia visuale, come Verena Paravel e Lucien Castaing Taylor, gli autori di Leviathan, uno dei film di riferimento nel «fuori norma» degli ultimi anni, che oggi sembrano assumere sempre maggiore rilevanza nell’intreccio tra occhio cinematografico e sguardo etnografico. L’idea, appunto, è quella di mettere da parte un’impossibile oggettività così come di prendere le distanze dal contenutismo sperimentando pratiche politiche e poetiche attraverso la sensibilità dell’immagine.

Ben Rivers, che firma suono, e riprese insieme a Russell, è più legato invece alla dimensione dell’arte, entrambi sono viaggiatori e esploratori di territori reali e dell’immaginario, spesso in solitudine, e in una «durata» cinematografica espressa in relazioni costruite a poco a poco..
Ma questo cinema indipendente, che di «avventuroso» ha la determinazione e la scommessa a ogni progetto di realizzarlo con un low budget e mettendo insieme ogni possibile fonte di supporto (con anche i rischi del caso, ormai i Film Lab come i canali tv più attenti alle produzioni indipendenti hanno «orientamenti» del gusto) dentro e fuori dal cinema, nel crossover non solo estetico ma anche produttivo con gallerie e istituzioni d’arte. È un po’ il segno di queste immagini, vivere sui confini geografici, narrativi, visuali, a cominciare dalla scelta dei supporti, dal loro uso, non si tratta semplicemente di una «questione tecnologica» digitale versus pellicola a cui si fa riferimento con un po’di tempo.

Il risultato è un film potente, riflessione lucida sull’approccio all’«altro» che interroga la propria materia, le immagini, a partire dal formato con cui vengono realizzate. Russell gira in 16 millimetri scelta che «obbliga» alla precisione del tempo e della sostanza. Il viaggio non è altrove, una fuga o il desiderio d’avventura, ma diviene lo spazio in cui mettere alla prova gli immaginari, spingendone oltre i limiti riconosciuti. L’iconografia coloniale e post, la bellezza della natura, il sentimento contemporaneo e la memoria dell’occidente. Il protagonista del film, il capo del villaggio, figura carismatica e detentore della parola, racconta il, culto di John Frum, il profeta divino partito oltre l’orizzonte dell’oceano e di cui attendono il ritorno. Ogni giorno alzano la bandiera americana, lo fanno dal 1957 quando si sono liberati dai colonizzatori, l’America è un sogno lontano rimasto in quei cinquanta quasi una mitologia di libertà, e un sincretismo nel quale ogni significato è stato ricollocato. Non è questa la stessa scommessa del regista?.

Il suono delle parole, l’impatto del vulcano o in perenne attività, con le sue volute di fumo, il quotidiano silenzioso del villaggio: l’uomo che prima parla in inglese passa poi alla propria lingua per esprimersi meglio. L’occidente ci spiega ha preferito la cultura del denaro, quando dio ha creato nel mondo invece ha creato anche molte culture diverse, che sono state distrutte dai colonizzatori, europei in nome del denaro. Possiamo cercare dei riferimenti, e il loro capovolgimento, restano immagine e suono che parlano e definiscono un nuovo spazio, una cartografia dell’immaginario imprevedibile, in cui il racconto della Storia si fa altro. Ma è questa zona dell’inatteso cinematografico in cui da sempre si muove il Fid, definirlo un festival del documentario sarebbe per questo riduttivo, se poi vogliamo «ridurre» l’idea di documentario a un format della realtà.

Nel suo programma, che ha riempito della sagoma di Pasolini, intorno al cui cinema il festival è costruito, ci sono corti, lunghissimi, esperimenti, e persino Cuadecuc Vampir di Portabella, irriverente dichiarazione amorosa con Christopher Lee, il cui sorriso fuori/dentro il campo è impagabile, a un genere la cui finzione è rivelata e esasperata, fino a dichiararlo zona libera dell’immaginario. Girato durante un altro film di Jess Franco, Dracula, ne utilizza gli attori e il decor ma sostituendo al colore il bianco e nero e alle parole il silenzio stridente di rumori.
Film nel film, documento sul cinema, dichiarazione di resistenza spavalda, è un frammento in questo programma composto da tanto (anche da cose difettose) che mette al centro il progetto prima dei singoli lungometraggi. Da qui la libertà di programmazione, e il fatto che il Fid è divenuto quasi un riferimento per quel cinema indipendente che significa ricerca e allenamento costante delle immagini, la realtà è soprattutto invenzione.

Succede così che dei ragazzini che giocano su una spiaggia algerina attraversino la storia del paese, dall’indipendenza alla guerra civile degli anni novanta, dalla lotta comune contro la colonizzazione all’emarginazione delle donne messe fuori dai governi machisti per opportunità e forse paura di una forza fuori controllo. Loubia Hamra è l’opera prima (in concorso negli esordi) di Narimane Mari, che con un gruppo di bambini e bambine da vita a una Storia anche nascosta, e narrata qui senza i tabù el compromesso. La dimensione è quella di una fiaba percorsa però da violenze e da ingiustizie, da sopraffazioni e da morte. I bimbi corrono nella luce del giorno e della notte, discutono, fanno piani, litigano, si scontrano duramente. Riempiono lo spazio delle case, attraversano il villaggio fino al cimitero, cosa accade, cosa è accaduto e perché. Perché non possiamo più venire con voi gridano le bambine. Hanno combattuto insieme contro i francesi, diviso pericolo, minacce, torture, e ora sono allontanate, considerate meno. Il tempo passa, si accartoccia come le parole: spuntano barbe e abiti lunghi, veli e silenzio.

L’ombra di altre guerre, di altra violenza, e miseria. La storia diviene teatro, il suo orizzonte è il filo azzurro del Mediterraneo che apre e chiude il film. Lì dentro come pesci si fanno portare via i ragazzini, inghiottiti dalle onde, fragili protagonisti di una battaglia ancora da scrivere.