La sensibilità verso la natura e i suoi esseri viventi – alberi inclusi – è cresciuta negli ultimi anni, ma il taglio facile degli alberi non è stato sconfitto. Spesso – troppo spesso – succede, perché prevalgono interessi economici particolari: nelle città si abbattono alberi per costruire parcheggi, metropolitane e linee di tram, così come in Amazzonia per far posto all’allevamento dei bovini o alla costruzione di una diga. La protesta degli abitanti viene trattata con sufficienza, dicendo grosso modo, “Che sarà mai, gli alberi si possono sempre ripiantare”, come se crescere un albero fosse la stessa cosa che tirar su la parete di una costruzione in cemento o mattoni.
Per secoli, il progresso ha scandito la sua marcia con il rumore dell’albero che cade. Poi, più recentemente, il concetto di progresso è stato messo in discussione, e con esso quelle di deforestazione, fino ad allora percepita dalle popolazioni egemoni dell’Occidente come cosa buona, un’opera di civilizzazione per ricavare suolo agricolo, costruire abitazioni e infrastrutture, navi per il commercio estero. Ma quel tempo è passato, anche se in molte parti del mondo – specie al Sud – milioni di persone non hanno una casa degna di questo nome, né i servizi sanitari in casa né l’acqua potabile. Questo è un problema molto serio, da affrontare presto se si vuole creare le condizioni per porre fine alla guerra permanente tra Nord e Sud. Ma si dovrà farlo senza consumare altro suolo agricolo e senza far crescere ancora la temperatura del pianeta Terra mettendo a rischio la vita.
Nelle mutate condizioni del ventunesimo secolo, di fronte al cambiamento climatico inarrestabile degli ultimi decenni, salvare un bosco, o una foresta o anche un solo albero, è diventato una priorità assoluta, un atto di civiltà.