Il museo della civiltà contadina di Ozzano Taro allestito da Ettore Guatelli è una grande casa mezzadrile, nella pianura parmense, in cui Guatelli, maestro elementare, artista, rigattiere, ha accumulato migliaia di oggetti, dagli attrezzi agricoli agli orologi, scatole di latta,  calze e scarpe, documentando la vita di centinaia di persone, e la vita propria, e quella della sua famiglia. Un museo che resiste grazie all’impegno della fondazione che gestisce il Museo, alle scuole che lo inseriscono nei loro percorsi didattici, e che in questi giorni ha persino trovato ospitalità, con una bella mostra fotografica, in un posto di tutt’altro genere, il fin troppo «signorile» Labirinto di Franco Maria Ricci a Fontanellato.

I MANUFATTI CHE GUATELLI raccoglieva poco alla volta invasero l’intera casa di famiglia, riducendo giorno dopo giorno gli spazi del vivere e dell’abitare. Sembrava animato dalla stessa ansia, la paura di vedere sparire il mondo, che ha animato tanta dell’avanguardia del secondo novecento. Degli artisti del dopo Auschwitz e del dopo Hiroshima. Quelli che hanno visto sparire nei lager i loro cari. Come Perec, che reagisce all’assenza, al vuoto in cui la furia nazista gettò la sua infanzia, descrivendo ossessivamente una strada di Parigi, o il condominio de La vita istruzioni per l’uso, o il suo stesso tavolo di lavoro. Provando a rendere visibile con le parole, quello che l’inflazione delle immagini ormai rende invisibile alla vista. O come Fabio Mauri, che ha esposto un muro di valige, usate, consunte, perdute e salvate, per evocare e vincere l’orrore di quella sparizione di persone e di cose, che furono i lager nazisti.
Non stupirà allora di trovare fra le cose di Guatelli i modelli grezzi di quegli idoli di Prillwitz, che segneranno una fase importante della vita artistica di un altro artista in lotta contro la sparizione del reale, Daniel Spoerri. E che Umberto Eco collochi un’immagine del museo di Guatelli come esempio del durare nella modernità di quella «vertigine della lista» che indaga in uno dei suoi ultimi lavori.

GLI OGGETTI IN MOSTRA ci parlano delle mani e dell’intelligenza di chi li ha posseduti e trasformati più volte, cambiandone forma e funzione, in tempi in cui la capacità di riciclare era condizione della vita stessa. Per far da mangiare, per coltivare i campi, per far giocare i bambini. Guatelli assembla gli oggetti per uso e funzione, ma la disposizione assume spesso traiettorie straordinarie e impensate, dettate da una sensibilità estetica straordinaria fino a comporre vere e proprie installazioni.

UNA SINTESI STRAORDINARIA fra utile e bello, che è poi rinvenibile in ogni singolo manufatto: la bellezza degli oggetti costruiti e ricostruiti per vivere faceva essa stessa parte della lotta  per non arrendersi alle avversità della natura e della storia. Di quei contadini, operai, artigiani. Molto spesso tutte e tre le cose insieme. E delle loro donne, e dei loro bambini.
Davanti a quelle installazioni, che danno ordine e aria all’accumulo di oggetti, pare di sentire l’ansia di chi teme che con quelle cose stia per scomparire l’intelligenza e la cultura di chi le ha costruite e usate. L’angoscia di Pasolini. «Quando artigiani e contadini spariranno, sarà la fine della nostra storia». Ma Guatelli non invita ad accomodarci nella nostalgia. «Il mio è un museo per l’estremo ieri e per l’estremo domani» è l’epigrafe che dettò nel 2000, poco prima di morire, a sintetizzare il significato della sua opera.

QUELL’«ESTREMO» piace ricollegarlo agli anni ’60 il cui estremismo culturale e politico si nutrì nei momenti migliori di una riscoperta dei valori morali ed estetici della nostra cultura popolare – il Folk studio, i canti del lavoro, i ragazzi poveri a cui voleva parlare e far parlare Don Milani a Barbiana, Mario Lodi al Vo di Piadena. L’«estremo domani» di oggi è segnato da un altro estremismo: quello dei mercati e della finanza, che ha staccato la ricchezza e l’economia dal lavoro e dalla vita.