La città ostile, come recita il titolo del saggio di Attilio Pizzigoni (Christian Marinotti edizioni, pp. 109, euro 12), è un’altra definizione che si aggiunge alle altre: «ribelle» (Harvey), «giusta» (Ischia), «a rischio» (Beck), «dei diritti» (Lefebvre), a quelle di Bernoulli («della speculazione dei suoli») e Jacobs (della «vita quotidiana») e alle molte altre utilizzate dalla sociologia e antropologia del territorio.

«OSTILE» è però aggettivo che fa presuppore al lettore un’analisi intorno alle troppe esplicite contraddizioni irrisolte che la città manifesta con cinica determinazione da quando l’abbiamo ereditata e trasfigurata dal moderno. Questa aspettativa risulta delusa perché l’interesse dell’autore è proiettato in avanti: alla «città deterritorializzata», quella per intenderci che ha perso «l’identità e la conformità con il luogo», smarrita «nell’indifferenza di uno spazio a bassa densità organica» che va integralmente ripensata. Tra un’intuizione di Augé e una di Deleuze, tuttavia, Pizzigoni non rinuncia all’ipotesi che lo spazio urbano non possa ancora evocare «memorie collettive», esprimere in sostanza un’identità. A questo compito mira il progetto urbano, anche se le realizzazioni (atopiche) sperimentate un po’ dovunque in Europa sembrano negarlo. Eppure è utile e necessario ribadire, come fa l’autore, quanto importante sia superare le disuguaglianze sociali, attraverso l’impiego di strumenti disciplinari efficaci che possano correggere gli errori del passato ricollegandosi alle «vicende degli uomini».

È EVIDENTE che il richiamo all’impegno disciplinare e alle possibilità che può offrire l’architettura come «forma di conoscenza» si presenta in un momento nel quale la politica è incapace di dare soluzioni immediate e concrete al disagio e ai conflitti generati dalle disuguaglianze sociali. La comunità degli architetti, tuttavia risponde – quando non è impegnata nell’ennesima discussione sulle ultime tendenze dell’arte o narcotizzata in quella sulla gentrificazione – con il disincanto del convivere con la normalità postmoderna, ossia nell’accettarla con tutte le sue anomalie e contraddizioni.
Prendiamo Bergamo, la città di Pizzigoni, amministrata da una giunta di centro-sinistra, inserita in uno dei quadranti più produttivi e interconnessi d’Europa ma che della sua situazione metropolitana sembra misconoscere le opportunità. È apprezzabile che, in due capitoli, l’autore spieghi il tentativo di ordinare la realtà urbana partendo dagli «elementi geografici e naturalistici» occultati dallo sprawl.

È IL RACCONTO DEL FIUME Morla alla luce delle sue trasformazioni avvenute nel paesaggio: da «arteria vitale» di acque a «canale di spurgo» a tratti tombato. Nessuno disconosce l’importanza della metodologia illustrata, ma Bergamo ha l’urgenza di dare una soluzione a problemi urbanistici di altra consistenza e che disegnerebbero un futuro diverso per la qualità di vita ai suoi cittadini.
A oggi, non sussiste alcuna idea verificabile di trasformazione: falliti i progetti precedenti e nella sordità della politica cittadina di accoglierne degli altri più realistici, dopo l’euforia immobiliarista degli decenni scorsi. Non è necessario ricordare il fallimento della società di trasformazione urbana per Porta Sud – il vasto sedime dello scalo ferroviario rimasto terrain vague – oppure menzionare la frequenza dei concorsi capaci di scodellare solo bellissimi rendering: dal Centro piacentiniano al recupero della caserma Montelungo-Colleoni, dal Centro sportivo Chorus Life all’ex-ospedale.

IL SAGGIO di Pizzigoni offre l’occasione per riflettere sulla nostra condizione «post-urbana», ossia sulla «complessità disciplinare» che presuppone il progetto d’architettura alle prese con le «finalità etiche e sociali che lo motivano». È probabile che potremmo configurare meglio quelle azioni che alle diverse scale d’intervento riescano a andare, in modo adeguato, verso un concreto cambiamento, come è accaduto e accade in altri paesi vicini.