Tutto è accaduto nel volgere di una notte. La città è stata chiusa senza preavviso e gli abitanti fatti confluire con celerità dentro le mura. Un’evacuazione di massa, condotta con la massima discrezionalità, di cittadini nati e cresciuti nei quartieri di periferia. Sono stati internati tutti, senza eccezioni, nel centro storico, divenuto uno sterminato luogo di raccolta. Nessuno può lasciarlo, oltrepassare le antiche mura alte fino a cinque metri. Laddove queste mancano, perché crollate nei secoli, l’area urbana centrale resta comunque delimitata da viali rettilinei che la segnano con estrema chiarezza. Le forze di polizia ne controllano i confini, le possibili vie di fuga all’esterno, quelle zone franche d’espansione viste ora come meta di agognata libertà. Con quali modalità si è riusciti ad acquartierare decine di migliaia di cittadini nei palazzi e nei bassi del centro storico tramutato in un novello lager? Le abitazioni non bastano e ci s’insedia negli uffici di edifici pubblici o in palazzine che disponevano di appartamenti adibiti a studi professionali. Sono in molti a trovare sistemazione nei luoghi di culto, nelle numerose chiese barocche già requisite. Al loro interno sono stati realizzati ammezzati a più piani sfruttandone i volumi, cioè le altezze elevate delle navate. Alcuni gruppi familiari hanno ricovero negli anfratti dell’anfiteatro sottostante alla piazza principale; altri ancora alloggiano nella cavea del teatro d’epoca romana situato dietro al convento delle Clarisse.

La complessa operazione di migrazione della popolazione è stata decisa d’autorità. Il sindaco della città, dopo essersi arrogato il diritto di esautorare la giunta e sciogliere il consiglio comunale, ha emesso l’ordinanza di segregazione. Si è auto-conferito poteri illimitati e lui soltanto possiede le chiavi della città. I consiglieri dell’opposizione sono stati arrestati e rinchiusi nelle gelide segrete del castello aragonese. Gli uomini delle forze dell’ordine (esercito incluso), guidati da ufficiali superiori, si sono posti spontaneamente sotto la figura carismatica del primo cittadino che si avvale dell’appoggio di un comitato ristretto di delegati denominati generalissimi. Il comitato, soppresse le forme democratiche di convivenza civile e le libertà individuali, si prefigge per compito primario l’immane risanamento igienico-urbanistico della città che si è estesa oltremisura nelle periferie. Il sindaco spalleggiato dai fedelissimi accarezza perfino il progetto ciclopico di radere al suolo la città nuova, ampliatasi selvaggiamente oltre le mura cinquecentesche molte più volte della città storica. I cittadini internati, affezionati ai loro quartieri, si chiedono se sia giusto decretare la morte della città novecentesca che tante opere edilizie e di valida architettura ha pur consegnato alla storia dello stile moderno. Nessuna mente, proprio mai, poteva arrivare a immaginare una forzatura di tale portata. Ancorché sia stato eletto come progressista e riformatore, il sindaco è divenuto un fautore del sistema e dell’ordine. Non tollera quei comportamenti che hanno fatto scadere nel degrado le periferie, divenute territori liberi in cui è sovrana l’anarchia; non accetta l’indolenza e la sciatteria di coloro che le abitano, riducendole a squallidi e malsani quartieri dormitorio con focolai di infezioni perniciose. Ha la fissa del lindore nelle aree urbane, del decoro a ogni costo, del senso civico come prerogativa di ognuno. Tutto ciò ha spiazzato i suoi concittadini che, rassicurati nel tempo dal lassismo delle istituzioni legittimamente elette, erano portati ad abitare la città nuova senza alcun impedimento alle libertà personali.