C’è una città di pianura aperta ai venti e solcata dai traffici, priva di un piano che l’abbia disegnata e libera di confini che la delimitino. Man mano che si allargava dal centro alle periferie, si è allungata sopra terrazze di ville, attici di palazzi, coperture di case. Visibile dall’alto, nascosta dal basso. Costituita da mansarde, sopralzi, giardini pensili e giardini d’inverno, tralicci, pergole, gradoni, vasche e piscine, ma anche ripostigli, tettoie, cucce e pollai. Un agglomerato verticale insinuatosi a pelle di leopardo nella campagna, in ogni direzione, che una moltitudine variegata di persone abita per lusso e per bisogno. Senza prescrizioni estetiche, al di fuori di uniformità di stili, diversificata nei materiali che la compongono e nei colori che la dipingono, la città dei tetti possiede contorni confusi e profili sfumati così da sembrare, allontanandosi, sospesa in aria. In realtà quella città, che pesante affonda nella terra, è tanto vera quanto abusiva. L’abbiamo traversata e vissuta nel tempo, quando avevamo gli anni e il piacere per attardarci senza contare il tempo.

Dal complesso di edifici e infrastrutture, allora meno invasivi, già spuntavano in deroga alle norme sopraelevazioni volumetriche utilizzate per fini commerciali da alcune categorie di artigiani: il sarto, il fotografo, il radiotecnico. Svolgevano le proprie attività in pieno centro sulla sommità di residenze, pure d’antico casato, dove vigevano canoni minimi d’affitto e dunque alla portata dei più. Tra i fotografi, ce n’erano tre-quattro appollaiati fra tetti e campanili con stanzino-studiolo e angolo adibito a camera oscura: un paio prospettavano sul corso, qualcun altro teneva affaccio sopra vie tortuose che confluivano nella piazza principale. Leonzio, decano dei fotografi da studio, occupava una mansarda il cui terrazzino era tutt’uno con l’area solare di copertura della secentesca chiesa di San Giuseppe. Da là in alto, dove anche abitava (tre piani con volta a botte equivalenti a cinque o sei di un condominio del secondo ’900, da salire a piedi), scendeva ormai raramente. Ma andavano a trovarlo gli amici affezionati ai quali faceva fotoritratti e poi, in fase di ritocco, lavorava di pennino sulla lastra oppure sul negativo. Per le foto destinate ai documenti d’identità accoglieva la clientela in quella sala di posa inondata di sole e spazzata da Eolo che era la terrazza di San Giuseppe, cui accedevano di primo mattino le massaie abitanti del palazzo per stendere il bucato. I lenzuoli, tesi in giù con le estremità agganciate a dei pesi, si prestavano perfetti come sfondo neutro per le fototessere immortalate dal banco ottico. Sulla nostra patente, di appena diciottenni, fa ancora bella mostra l’immagine seppiata restituitaci dalla macchina di Leonzio sopra la città dei tetti.