Questo libro racconta tante storie. La storia, ad esempio, di un uomo che descrive il potere guardandolo prima dal basso e poi dall’alto: prima con l’irritazione di chi vede i piatti più prelibati passargli davanti, destinati alla tavola del principe, ed è coinvolto in feste e viaggi solo se è il principe a deciderlo; poi sempre con irritazione, ma quella del padrone che coglie le critiche velate dei sottoposti, che nota la loro avidità o ingratitudine. Le due prospettive in sé non sono rare. Insolito è che siano adottate, una dopo l’altra, dalla stessa persona. Eppure questo è il caso del senese Enea Silvio Piccolomini, che scrisse di sé prima nelle vesti del brillante cortigiano, poi in quelle del papa-umanista Pio II.
Questo libro racconta le vicende singolari, spesso imprevedibili di Pio II e di tanti altri all’interno di una storia altrettanto singolare e imprevedibile: la storia di Roma tra la fine del Trecento, il secolo della Peste e dello Scisma che divise l’Europa cristiana, e la fine del Quattrocento, nel pieno di quell’età che continuiamo a chiamare Rinascimento. La storia comincia con Roma deserta e desolata, tanto da non avere più neppure l’aspetto di una città. La basilica di San Pietro, secondo un cronista del tempo, era «in totum et per totum (…) derelicta et abandonata», e il re di Sicilia Ladislao entrò addirittura a cavallo nella cattedrale di San Giovanni in Laterano. Il papato, diviso tra due e poi tre pretendenti, aveva raggiunto il suo punto più basso. Solo dopo il concilio di Costanza (1414-’18) comincerà la ricostruzione, dalle ristrutturazioni di Martino V fino al grandioso piano urbanistico di Sisto IV, che fece costruire ponte Sisto, riedificare Santa Maria del Popolo e Santo Spirito in Sassia (con l’annesso ospedale), ampliare piazza Navona e migliorare la viabilità tra Porta del Popolo e San Pietro.
Il fascino e la complessità di queste vicende sarebbero sufficienti a giustificare la lettura di Roma dal Medioevo al Rinascimento (1378-1484) di Arnold Esch, già professore di storia medievale all’Università di Berna e direttore, dal 1988 al 2001, dell’Istituto Storico Germanico di Roma. Ma il libro – pubblicato in tedesco nel 2016, ora aggiornato e tradotto da Maria Paola Arena Samonà (Viella, pp. 414, € 35,00) – è da leggere anche per tre pregi che è raro conciliare. Anzitutto la padronanza eccezionale di fonti storiche, archeologiche e letterarie di ogni tipo, che permette all’autore di riportare alla luce la vita dei romani del passato in tutta la sua concretezza sociale e materiale. Forse solo Esch, che ha rinnovato gli studi sulla Roma medievale con un lavoro di scavo lungo oltre mezzo secolo, era in grado di scrivere un libro come questo. In secondo luogo, l’acutezza e l’equilibrio con cui sono affrontati i problemi di interpretazione posti da una documentazione disomogenea e frammentaria (atti giudiziari, registri doganali, documenti notarili). Infine, una scrittura sobria, precisa e piacevole: niente è di troppo, niente è fuori luogo.
Fin dalle prime pagine è introdotta una distinzione decisiva: da un lato la Roma dei papi, dall’altro la Roma dei romani. A complicare le cose, si aggiunge l’enorme risonanza dell’immagine di Roma: non solo l’idea di Roma formulata da intellettuali e scrittori, ma l’aspettativa su Roma coltivata, per esempio, dai pellegrini che si mettevano in cammino da lontane regioni del nord Europa per raggiungere la città eterna. La principale linea narrativa del libro segue così l’affermazione della Roma papale sulla Roma comunale, con le sue libertà e la sua autonomia. A questo prezzo la Roma medievale si trasformò nella Roma del Rinascimento. Nel XIV secolo, con il trasferimento dei pontefici ad Avignone, la Roma dei romani era emersa in modo dirompente con i progetti di Cola di Rienzo e poi con il comune di impronta popolare. Nel 1398, vent’anni dopo il ritorno della Curia a Roma, il libero comune è definitivamente esautorato da Bonifacio IX. I romani non sono più padroni della propria città, e la vedono trasformarsi in uno stato governato da principi che sono a capo dell’intera cristianità, e salgono al potere per via non dinastica, bensì elettiva.
L’affermazione del papato non fu né lineare né scontata. Lo mostrano i colpi di stato tentati invano da Pietro Mattuzzi nel 1400, da Stefano Porcari nel 1453 e da suo nipote Tiburzio nel 1460, oppure la rivolta popolare che accompagnò la fuga di Eugenio IV nel maggio 1434. Ma se la fuga del papa era stata fino allora un evento ricorrente, annunciato o minacciato da vecchie e nuove profezie, a quella di Eugenio non ne seguirono altre per più di quattro secoli (prima che a scappare da Roma, nel 1849, fosse Pio IX). Anche gli umanisti, attratti fin dai primi del Quattrocento dalle possibilità professionali offerte dalla corte papale, vociferarono, nel 1468, di assassinare papa Paolo II. Ma la congiura, se non fu solo immaginaria, fu sventata prima di prendere forma.
Il papato aveva ormai preso saldamente possesso di Roma, e questo determinò alcuni cambiamenti strutturali nella vita della città: una consistente immigrazione, e la sovrapposizione dei due circuiti economici della corte e della città (da un lato la finanza e il commercio internazionale, dall’altro un’attiva economia di piccolo raggio). Quanto all’immigrazione, dopo Martino V il secolo XV vide succedersi una serie di papi non romani, che favorirono di volta in volta i propri familiari e concittadini (veneti, toscani, liguri). Intanto si radicava in città una massa crescente non solo di ‘forestieri’ – tra i quali spiccavano i fiorentini, che occuparono ruoli chiave come banchieri del papa e umanisti al suo servizio – ma anche di ‘stranieri’ raccolti intorno alle loro confraternite nazionali: i tedeschi a Santa Maria dell’Anima, i francesi a San Luigi (come oggi), e poi gli inglesi, i catalani e i castigliani, gli scandinavi e così via. Con vari mestieri, e con gradi diversi di integrazione. Alcuni vivevano in Curia, come i prelati o il loro seguito; altri erano artigiani o fornai, mercanti e stampatori (soprattutto i tedeschi). Alcuni nel giro di una o due generazioni dichiaravano ancora la loro origine (per poter accedere a una confraternita), ma non conoscevano più la lingua dei loro padri; altri parlavano solo la propria lingua, magari poco nota come il gaelico dei tre cavalieri scozzesi provenienti dalle Ebridi che tentarono di lucrare l’indulgenza per la crociata nei tempi più rapidi possibili, non potendo permettersi di restare a lungo in una città costosa come Roma.
Indulgenze – siamo negli anni precedenti la Riforma di Lutero –, giubilei e pellegrinaggi erano uno dei motivi principali perché ci si metteva in viaggio alla volta di Roma, e Arnold Esch è maestro nel ricostruire i tragitti e l’equipaggiamento dei pellegrini. Comprese le mappe (magnifica quella stampata da Erhard Etzlaub, riprodotta a p. 125), e anche un improvvisato vocabolario tedesco-italiano, le cui voci restituiscono il concreto livello di comunicazione: ‘lenzuolo’, ‘cimici’, ‘mettere il chiavistello alla porta’, ‘questa salsa non ci piace’, ‘non dire anche tu che i tedeschi sono sempre ubriachi’.
Un filo rosso, infine, percorre l’intero libro: la sopravvivenza dell’antichità classica e la storia dei modi di percepirla, con «gradi diversi di sprovvedutezza e disorientamento». Da una parte l’eccezionale combinazione di storia, archeologia e antiquaria dell’umanista Biondo Flavio, o la rappresentazione esatta delle mura di Roma nei dipinti di Andrea Mantegna (con irregolarità, sovrapposizioni, murature in concio e in laterizio, iscrizioni antiche riconoscibili come materiali di spoglio: «storia proiettata su una superficie in muratura»). Dall’altra il silenzio di tanti viaggiatori, i cui occhi non erano abituati a vedere né l’antico né la sua rinascita, e il cui linguaggio non era allenato a descrivere i monumenti con frasi diverse da ‘la chiesa è più grande della nostra parrocchia’, o ‘la chiesa è bella’.