C’è l’intento di tutelare l’istituzione, che si presume voluta da Dio stesso. C’è la certezza di concepirsi come corpo separato, quindi regolato e sottoposto a norme diverse da quelle della laica società civile. C’è il corporativismo, che tende a proteggere i propri componenti da intrusioni esterne. C’è tutto questo. Ma alla radice dell’incapacità della Chiesa cattolica di fronteggiare lo scandalo degli abusi sessuali commessi da preti e religiosi – al di là dei singoli interventi che ci sono stati, anche da parte di alcuni pontefici – c’è una ragione culturale: la convinzione che la pedofilia non sia un «crimine», ma un «peccato», e come tale sia redimibile attraverso un percorso di penitenza e di espiazione, da compiersi all’interno dell’istituzione, l’unica titolata a giudicare il peccatore e a emettere condanne, anche pesanti, sempre però all’interno del perimetro che essa stessa ha tracciato.

UNA CULTURA del peccato penetrata in profondità e completamente assimilata grazie a una tradizione teologica e canonica lunga venti secoli, che è andata in crisi solo nell’ultimo quarantennio, quando nell’opinione pubblica, in un amalgama solo apparentemente contraddittorio di secolarizzazione e rinascita del sacro, sottratto però al controllo delle istituzioni ecclesiastiche, si è fatta prepotentemente strada l’idea – prima tutt’altro che condivisa – che la pedofilia non è un delitto contro la morale, ma una violazione dei diritti umani dei soggetti più deboli, un crimine abietto e imperdonabile.

CON LE DENUNCE PUBBLICHE degli abusi sessuali compiuti dal clero (le prime alla metà degli anni 80 del secolo scorso), amplificate dai mezzi di informazione e di comunicazione in generale – soprattutto il cinema –, il tappo è saltato: la Chiesa cattolica si è trovata investita da uno scandalo dopo l’altro che ne hanno minato la credibilità da parte di molti fedeli, generato discredito e alimentato la rabbia nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche, omertose quando non complici.

L’istituzione ha provato recentemente (papa Benedetto XVI, non il cardinal Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede) e sta provando (papa Francesco) a correre ai ripari con una serie di interventi e misure, ma l’ondata pare inarrestabile. Proprio perché la falla non è tanto – o non solo – normativa e disciplinare, ma appunto culturale.

È LA TESI con cui due storici dell’età moderna, Francesco Benigno e Vincenzo Lavenia (il primo docente alla Normale di Pisa, il secondo all’università di Bologna) hanno affrontato il tema, con un approccio originale e obiettivo che guarda alla storia e in un certo senso agli archetipi culturali, nel volume appena pubblicato da Laterza: Peccato o crimine. La Chiesa di fronte alla pedofilia (pp. 284, euro 20).

Il libro è frutto di uno sforzo di analisi e insieme di sintesi. Viene attraversata la storia della Chiesa, osservata con le lenti dell’atteggiamento nei confronti della sessualità: dalle origini cristiane (partendo non dai Vangeli – perché Gesù di «sessualità» ha parlato poco o nulla – ma da Paolo, il primo a distinguere pratiche sessuali virtuose e peccaminose, prima fra tutte l’omosessualità) a papa Bergoglio, passando per il tardo impero cristiano, il medioevo, la Controriforma, l’età moderna, il Novecento e l’inizio del nuovo secolo, con i grandi scandali di pedofilia ecclesiastica in Usa, Irlanda, Australia, Paesi Bassi, Germania, Cile. E viene interpellato il pensiero dei filosofi, da Foucault a Žižek, sconfinando anche nella letteratura contemporanea e nel cinema.

PER GIUNGERE a una conclusione che non pretende di spiegare le cause della pedofilia (il sessantotto e la liberazione sessuale, insieme alla diffusione dell’omosessualità, per i settori conservatori; il clericalismo, secondo l’ala più liberal), ma prova a individuarne le radici profonde e a spiegare perché la Chiesa non sembra ancora in grado di voltare pagina: una «cultura condivisa dai fedeli, dai preti pedofili e dalle gerarchie ecclesiastiche» – ma ora non più dalla mutata sensibilità della società civile – che si tratti di peccato, con la sua intrinseca «ineluttabilità» e «redimibilità».