Esiste un tipo di critica letteraria che spesso sconfina nella narrativa, non soltanto nel senso dell’eleganza e della scorrevolezza del linguaggio utilizzato, ma soprattutto perché, pur rifuggendo da tecnicismi e specialismi, e parendo voler mirare soprattutto a comunicare sensazioni, emozioni che scaturiscono dall’incontro con gli autori e/o le opere, riesce sovente a far comprendere in maniera più chiara e luminosa gli aspetti fondamentali e nascosti dell’oggetto della sua ricerca. È questa l’impressione che si prova leggendo il libro di Marisa Bulgheroni, uscito di recente e intitolato Chiamatemi Ismaele. Racconto della mia America (Il Saggiatore, pp. 212, euro 17,50). Si tratta di un vero e proprio viaggio nello spazio e nel tempo, dato che racconta di incontri con autori americani avvenuti tra l’Europa e gli Stati Uniti, in un periodo di tempo compreso tra il 1959 e il 1991. Si tratta in gran parte di conversazioni già pubblicate su quotidiani e riviste, eccetto alcune scritte «in tempi recenti sulla traccia di memorie persistenti o di taccuini ritrovati» proprio per entrare a far parte del libro.

L’autrice ha insegnato letteratura americana in varie università e, a partire dal dopoguerra, ha contribuito alla diffusione della narrativa statunitense in Italia, grazie a testi dedicati al nuovo romanzo americano e ai beats. Si è occupata inoltre di Emily Dickinson, curando il Meridiano a lei dedicato e scrivendone la biografia. Infine, a partire dagli anni Novanta si è cimentata anche nella narrativa, pubblicando racconti e un romanzo.

Questo suo Chiamatemi Ismaele, proprio per la maniera in cui sono tratteggiati e narrati gli incontri con i vari scrittori e per il modo in cui viene descritto il paesaggoi urbano, e non solo, dell’America attraversata da Marisa Bulgheroni, fa subito venire in mente una sensazione di leggerezza. Quella leggerezza magistralmente interpretata dalla prima delle Lezioni americane di Italo Calvino. Certo, in quel caso si parlava di letteratura e non di critica letteraria, ma quella categoria forse può essere utilizzata per comprendre meglio un certo tipo di discorso critico. Anche perché, come afferma lo stesso Calvino, per lui «la leggerezza si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso». E ancora, in un altro passo della lezione, l’idea di leggerezza viene definita come «l’oggetto irraggiungibile di una quête senza fine». Precisione, determinazione, ricerca senza fine. Non sono forse questi concetti che si legano indissolubilmente di critica in generale, e di critica letteraria in particolare?

Comunque sia, il racconto della sua America di Marisa Bulgheroni sembra rispondere appieno a tali caratteristiche, inanellando una serie di incontri con scrittori del calibro di Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Saul Bellow, e poi ancora Philip Roth, Norman Mailer, E. L. Doctorow e tanti altri. E riuscendo in ogni caso a farne emergere i caratteri fondamentali grazie a un approccio e a una prosa leggera e raffinata e, soprattutto, grazie a un’attenzione precisa per i particolari, per l’ambiente circostante, per la situazione che si crea, che riesce a far venir fuori dalla pagina l’atmosfera della conversazione e le caratteristiche importanti di scrittori e opere. Il tutto tenendo sempre ben presente che l’incontro non esaurisce il discorso né a livello critico, né, soprattutto, umano, e che la ricerca continua con la stessa voglia, il medesimo entusiasmo, la stessa meraviglia, senza potersi fermare mai.

E il viaggio inizia con un primo capitolo, intitolato Alla ricerca dell’America, che è un perfetto esempio della scrittura e della maniera di analisi di Marisa Bulgheroni. Qui tra aneddoti, descrizioni, riflessioni, sensazioni e brani di vita vissuta emerge, da una parte una sorta di piccola storia della letteratura americana, dall’altra tutta la potenza e la complessità dello spazio statunitense. Così si parte, sulla scorta di Cesare Pavese, da «una letteratura coloniale dalle origini dotte» che «si liberava, nel corso dell’Ottocento, dai vincoli del culturalismo, per nascere “moderna”, con una “forte voce nuova”, con una “nuova leggenda”», grazie a «un linguaggio nuovo che distruggesse la barriera fra cose e parole». Si transita poi per l’epoca in cui lo scrittore «condivideva con altri che rivendicavano a sé la sapienza del filosofo – come Saul Bellow – la stessa volontà o illusione di interpretare la propria epoca, di incidere in essa il proprio segno». Si arriva, infine, a «quel processo di disintegrazione e insieme di revisione e innovazione profonda della lingua letteraria, chiamata a confrontarsi con le altre lingue, falsificatrici e tendenziose, dei media o a gareggiare con il nuovo potere dell’immagine televisiva o elettronica, o a sfidare la parola strappata all’immagine stampata, e quasi privata dell’ombra negli e-book». E, nello stesso tempo, si attraversano luoghi diversissimi e complessi, placidi e frementi. Innanzi tutto New York «città aritmetica, quasi pitagorica», ed anche «mosaico di quartieri sconfinanti l’uno nell’altro, ma separati da distanze siderali». E poi i boschi dove visse Henry Daviv Thoreau. E ancora lo studio di Hawthorne a Concord, la Nanticket immortalata da Melville e la Amherst di Emily Dickinson. Luoghi, tutti perlustrati «non da turista, con metodo, ma con la sregolatezza di un’appassionata principiante», in grado, dunque di restituirne la meraviglia, le atmosfere, la mitologia.

Un atteggiamento, una disposizione dell’anima, quello appunto dell’appassionata principiante, che l’autrice, raffinata studiosa, mantiene pure negli incontri con gli scrittori, facendone emergere dei ritratti a tutto tondo veri e appassionanti: da Kerouac «insofferente di un successo che lo inquieta» a Ginsberg «sradicato cosmopolita» colto nella sua quotidianità, da Philip Roth che «ha usato instancabilmente la propria vita e il proprio corpo come materia di invenzione romanzesca» a Robert Lowell «poeta che lavora sulla memoria, ricominciando ogni giorno l’allucinante viaggio nel passato».