«Voglio sgonfiare il mito della meritocrazia come la via da seguire per tutti. E credo che in una certa misura si stia già sgonfiando da sé: le persone sanno che non esiste più la mobilità sociale di un tempo. Come disse Raymond Williams anni fa, la meritocrazia inocula l’idea velenosa della legittimità delle gerarchie. Che sulla ’scala’ sociale possano salire solo alcuni». Così Jo Littler, senior lecturer in cultural studies alla City University di Londra, incontrata a Soho nei giorni scorsi. Littler sta lavorando a un libro, titolo provvisorio Against Meritocracy, che Routledge pubblicherà verso la fine del 2015. Quell’against, lascia poco spazio alle interpretazioni: è un libro contro una meritocrazia vista come volano di darwinismo sociale. Basti pensare a certe scelte lessicali di Matteo Renzi per capire quanto la metafora sub specie finanziaria della «scalata» sia ormai iscritta nella dialettica politica delle post-sinistre europee. Per questo è urgente esplorarne l’ambiguità e smascherarne l’uso ideologico.

Nel dibattito politico contemporaneo la meritocrazia, infatti, imperversa. Sbandierandola enfaticamente come panacea della disuguaglianza – quando in realtà può esserne altrettanto tranquillamente annoverata tra le cause – la cultura d’impresa si fa spazio nel corpo sociale, sostituendo le proprie logiche di profitto a quelle su cui si è retto l’assetto welfarista europeo del secondo dopoguerra. E poi, come si fa a scagliarsi contro il merito? Nel lessico politico da ricreazione scolastica ora vigente, una puntuale accusa di «gufi» è pressoché assicurata. Peggio che mettere l’iPhone dentro a un gettone.

Elite sempre in testa
Sì, perché il merito è il cavallo di Troia con il quale il neoliberismo ha fatto un’etica irruzione nella cittadella post-socialdemocratica della sinistra europea. In questo cavallo Matteo Renzi – un tardivo epigono blairista quando Blair in patria è ormai plebiscitariamente un paria – non ha certo bisogno di nascondersi: anzi, lo cavalca come Tex Willer, strappando ovazioni al giovane esercito di riserva, plurititolato e sottoccupato, che di Renzi è entusiasta sostenitore. Ma il conio del termine è naturalmente avvenuto nella sfera angloliberale, ed è qui che si è avviata una discussione interessante sull’uso ideologico a tappeto che ne fanno i media anglosassoni.

«Comincia a diffondersi un sano scetticismo sulla meritocrazia, nonostante la pioggia mediatica che ci propinano i talent shows – spiega ancora Littler – Sto indagando sulle modalità con le quali le élite drammatizzano e sensazionalizzano le proprie vicende biografiche per propagandarle. Come cercano di presentarsi in qualità di individui ordinari per dissimulare il proprio privilegio e diffondere l’idea che si trovano lì perché se lo sono meritato. La famiglia reale, in questo senso, è molto interessante: è riuscita a riabilitarsi come appunto ’normale’. Oppure basti pensare al successo di serie televisive come Dawnton Abbey, dove le differenze sociali sono rese glamour e legittimate attraverso l’espediente narrativo».
È ovvio che il merito abbia anche molti aspetti positivi, come ad esempio la creatività, che vanno senz’altro sottolineati. Per questo Littler intende ricrearne la traiettoria storica e ideologica. «M’interessa ricostruirne lo sviluppo nella teoria sociale, nel dibattito politico, nella cultura. Questi tre fili sono molto intrecciati e troppe volte utilizzati in modo da sottrarre terreno morale all’indignazione nei confronti della disuguaglianza». Il libro è un tentativo di ricostruire la nascita e la circolazione del termine nei suoi rivoli semantici, «giacché talvolta è usato in modo addirittura sprezzante, cosa secondo me pericolosa. Naturalmente il rischio è che mi si possa scambiare per autocratica».

Vista inizialmente con sospetto dalla sociologia d’ispirazione Labour, la meritocrazia è stata poi sdoganata dai think tank conservatori britannici che, dagli anni Ottanta in poi, sono diventati i laboratori – egemonici e paneuropei loro malgrado – di politiche bipartisan di riforma del welfare e tendenti a una sempre maggiore invadenza del privato nel pubblico. Il termine meritocracy viene convenzionalmente fatto risalire al sociologo di area Labour Michael Young (1915-2002), che nel 1958 scrisse il saggio satirico The Rise of the Meritocracy, anche se era stato usato due anni prima da un altro sociologo, Alan Fox, per poi passare nel repertorio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il termine ha una connotazione negativa. È una visione distopica, che paventava ciò che sostanzialmente sta accadendo oggi: una crescente distanza e impermeabilità tra l’élite dei meritevoli e la stragrande maggioranza dei «non meritevoli», ai quali si tolgono gli ammortizzatori sociali proprio in quanto tali.

È uno di quei casi ironici della storia che il figlio di Young, l’assai più noto Toby, sia un giornalista patinato in forza al Daily Telegraph. «È stato il padre di Toby a scrivere il libro, è vero, un’ironia che viene spesso evidenziata – afferma Littler – Ma lo stesso Young padre presentava delle ambiguità. Michael era più interessato alle politiche dell’istruzione e alla stratificazione sociale, ed è lì che il termine assume una connotazione più sfocata. Anche se lo usa in modo satirico o come per riferirsi sfrontatamente alle divisioni sociali, in ultima analisi la sua critica del capitalismo è a dire poco ambigua. A rileggere i suoi scritti, Young emerge come figura davvero interessante. Era uno studioso innovativo, ma non privo di una certa ambiguità: come per esempio quando disse di non essere del tutto a favore delle comprehensive schools, una strana dichiarazione. Se poi si considerano gli ambienti sociali che frequentava, era vicino all’assai più liberale Daniel Bell».

Individuo prigioniero
Proprio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave nell’allineamento della sinistra moderata in difesa del capitalismo in cui sono ravvisabili i prodromi dell’uso del concetto da parte del neoliberismo nella sua declinazione thatcheriana. «Thatcher è stata senz’altro una figura chiave nella diffusione delle idee neoliberiste, ma pensando a lei va ricordata soprattutto la partnership fondamentale con Ronald Reagan: tanto per ricordare che non era soltanto ’una malvagia donna, una strega’, come spesso l’apostrofavano i suoi detrattori, l’unica responsabile di un processo storico complesso. È utile pensare anche a cosa abbia rappresentato, al modo in cui ha immaginato la politica».
Eppure, dai media mainstream, Thatcher è costantemente additata a simbolo di possibili conquiste femminili, quasi una forza emancipatrice. «È interessante l’aspetto ’femminista’ attribuito alla sua figura. Era tutt’altro che femminista ovviamente, e cercò di distanziarsi il più possibile da qualsiasi accostamento a obiettivi femministi: ne è riprova la demonizzazione sociale e culturale delle madri single operata dal suo governo, la cui strategia sembra tuttora quella di incolpare le vittime di privatizzazioni e disoccupazione per il proprio malessere sociale».

È con Thatcher che si sostanzia per la prima volta il concetto nel senso della contrapposizione fra l’individuo e le sue chance di rispondere alle sfide del mercato. Nel suo presentarsi come matrona della nazione, Thatcher ha fatto uso di particolari elementi del femminismo e deliberatamente a meno di altri. «La sua è una femminilità quasi astratta, desessualizzata: per esempio, non faceva mai riferimenti alla propria famiglia. Ci sono molti studi che al momento affrontano il riposizionamento della femminilità in una vera e propria cultura d’impresa, dove la donna è incoraggiata a pensare a sé in quanto progetto individuale, a migliorare il proprio status e mobilità sociale attraverso l’autopromozione. L’individuo è incoraggiato a pensarsi come progetto: una sorta di ’imprenditorializzazione’ del sé».