Chiamatela stagnazione. Per la Cgil è la condizione dell’economia italiana all’esordio del 2016. Per il momento è schermata dalla ripresa consistente dei consumi finali delle famiglie – si legge nel secondo numero dell’almanacco economico del sindacato di Corso Italia – ma il loro contributo alla «ripresa» sognata da Renzi e dalla sua corte potrebbe essere neutralizzato dalla flessione delle esportazioni e del declino della produzione industriale registrate sul finire dell’anno scorso. La tesi della Cgil è che questo ritorno al consumo è dovuto ai rinnovi contrattuali che hanno incrementato il livello dei redditi da lavoro oltre la modestissima inflazione che non risale a dispetto della rianimazione monetaria praticata dal «Quantitative easing» della Bce di Draghi.

A questa tesi potrebbe essere appaiata a quella di Palazzo Chigi che ha dirottato una decina di miliardi per il bonus Irpef da 80 euro al basso ceto medio del lavoro dipendente entro i 26 mila euro annui di reddito. Soldi che vanno a consumi che reggono la flebile crescita della domanda aggregata ma che nel corso dell’anno potrebbero essere spazzata via dalle incertezze della crescita globale e dalla fragilità di quella italiana. Senza un aumento significativo degli investimenti, sia industriali che delle famiglie, la «ripresa» sarà effimera. Come alternativa il sindacato individua il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro scaduti, a cominciare da quello dei metalmeccanici, e di un rinnovo del sistema di relazioni industriali. Prospettive non proprio simili a quelle di Confindustria che ha già sparato alto contro la proposta contrattuale Cgil-Cisl-Uil.

Il capitolo Jobs Act, vedi alla voce fallimento, è una scadenza fissa in queste analisi. L’alluvione degli incentivi a pioggia e sgravi contributivi per nuove assunzioni e deduzione Irap del costo del lavoro indeterminato ha premiato le tasche degli imprenditori, ma non ha prodotto nuova occupazione. Qui sta il problema: l’incremento annuo dei lavoratori permanenti è stato poco al di sopra dei 70 mila occupati, a fronte di un nuovo aumento dei lavoratori a termine di circa 115 mila unita nei primi dieci mesi della renzianissima riforma. Bankitalia sostiene, nel suo ultimo bollettino, che con questo passo il tasso di disoccupazione calerà di 0,3 punti percentuali nel prossimo biennio, sotto l’11%. Un successo clamoroso costato al contribuente sette miliardi di euro. Senza contare che questo andamento si regge sull’unico vero boom: 900 mila lavoratori over 55 costretti dalla legge Fornero a restare al lavoro, mentre aumenta precarietà e disoccupazione nella fascia intermedia dei lavoratori tra i 24 e i 49 anni.

Questo è il paradosso del Jobs Act: voleva addirittura cancellare la precarietà tra i giovani, sta aumentando l’occupazione precaria dei genitori. «Per tornare ai livelli pre-crisi – precisa lo studio della Cgil – non saranno sufficienti le trasformazioni di contratti precari o autonomi, effetto del Jobs Act, e il mero incontro domanda/offerta di lavoro per la copertura dei posti vacanti: se si considerano i posti di lavoro persi dal 2008, i nuovi inattivi e le forze lavoro potenziali, restano ‘da occupare almeno 900 mila persone». Il governo, scommette tutto sugli investimenti fissi delle imprese e sui consumi delle famiglie. Il guaio è che il taglio di 10 miliardi di euro alle tasse delle imprese non ha generato l’auspicato aumento degli investimenti, sebbene profitti, fatturato e ordinativi siano in aumento. In altre parole, si è trattato di un’espropriazione di risorse pubbliche a fini privati con la scusa di finanziare un’occupazione precaria.

Non basta mettere un segno più al Pil o al tasso di occupazione per avere una crescita. E non basta gongolare per l’aumento del clima di fiducia dei consumatori e delle imprese (a dicembre diminuisce). La fiducia è una categoria liberista che attesta l’attitudine del mercato a autoregolarsi. Ci vuole la crescita delle aspettative, basate sull’aumento dei redditi e degli investimenti, per parlare di un futuro.