Entrare nel nuovo libro di Silvia Bre, appena uscito per Einaudi (Le campane, pp. 72, euro 10), è varcare la soglia dei luoghi della nostra origine. Procediamo fra i versi come fra rocce mai viste, e che pure ci parlano di noi. È Bre stessa a suggerirlo, in principio d’opera: siamo dentro le Grotte di Chauvet, testimonianza inestimabile dell’arte preistorica, a cui uno dei primi componimenti della raccolta è dedicato. Tra le pareti della grotta «il ritmo vaga prima/ della vita», e la pittura rupestre di un toro in movimento fa vibrare l’aria: il toro esiste per sé, «viene da lontano,/ e non per noi», tuttavia ci riguarda, c’interroga, commuove. Vorremmo a nostra volta interrogarlo, eppure davanti all’origine – scrive Bre – «noi/ ci industriamo, ma siamo senza voce»: siamo «come le stelle contro il loro buio». Da quel buio sorgiamo, quel buio ci fa esistere – è per differenza col nero che brilliamo – eppure non possiamo possederlo.

MA È PROPRIO QUI che Bre ci invita a cambiare prospettiva: il punto non è chiarire il buio, ma avvertirlo dietro e intorno, sentire come ci sostiene. Lo stesso vale per la grotta: guardare gli animali che una mano umana ha dipinto, più di 30.000 anni fa, non serve a interpretare il passato, quanto a lasciarsi attraversare dal sentimento della discendenza: «discendere da loro/ in un destino/ nel fumo/ negli spazi/ essere stati il futuro di qualcuno». «Essere stati il futuro di qualcuno»: esiste un verso che esprima meglio l’emozione verticale del sentirsi dentro il paesaggio di «ere più vaste di questa»? «Essere stati il futuro di qualcuno», scrive Bre, e mentre lo scrive ci allunga lo sguardo, ci convoca a un’appartenenza che è oltre noi, ma di cui pure siamo responsabili – qui e ora.
Che cosa ne facciamo, di questa appartenenza? Come ne rispondiamo? La poesia di Bre non dà istruzioni. Mostra, ma non dimostra, e quel che mostra è un certo modo di stare nella vita: attraversandola con l’orecchio teso, in ascolto degli altri, umani e non umani.

È con l’orecchio teso che Silvia Bre ascolta il suono delle campane, che danno il titolo al libro, e continuamente rintoccano dentro e fuori di lei: le campane sono la «cima» che «dondola il tempo», sono il battito remoto e segreto dell’esistenza, salutano la nascita o l’addio, «vegliano/ sulla diaspora dei morti». Le campane provengono da un «lontano», un tempo perduto eppure continuamente presente: mentre suonano, «sai che quel lontano è amare amare tanto./ E stai, a sentirle da qui/ mentre parli a voce bassa col morire».

Disporsi all’ascolto delle campane, significa parlare «a voce bassa» con la morte stando nella vita, dedicando in egual misura a entrambe – la morte e la vita – attenzione, fiducia, preghiera. Di nuovo, non si tratta di capire: chi prova a fermare le campane – avverte Bre – chi ne interrompe il suono con l’intento di decifrarlo, «perde, perde/ l’elusione scintillante che detengono». Proprio così: chi prova a definire il mistero lo perde, chi inchioda un senso al suono lo fraintende.

OGNI GRANDE POETA ce lo insegna: si ama la poesia se si accetta di non capirla fino in fondo. In questo Silvia Bre, da anni, ci è maestra, come quando nel poemetto Sempre perdendosi (Nottetempo, 2006) scriveva: «Amo senza capire./ È non capire che amo fino in fondo». Non si tratta di un elogio dell’incomprensione: accettare di non capire non è rinunciare alla realtà, bensì abbracciarla nella sua interezza, in un ascolto pieno che non organizza la vita, ma assomiglia alla vita.
È con questo ascolto, con questo amore, che nel suo ultimo libro Silvia Bre scrive della tragedia di Bergamo – sua città natale – stravolta dalla pandemia nel 2020, o dei naufragi sulle coste del nostro Mar Mediterraneo.

«Pensala, inclusa nel corpo penitente/ girato sotto per coprirsi con la schiena»: si apre così il trittico di poesie dedicato a Bergamo, e subito la città ci appare come un immenso corpo degente. È ascoltando quel corpo che soffre che Silvia Bre innalza la sua invocazione: «E tu mantieni l’attimo soltanto, la gabbia chiusa, l’angelo/ col fiato rotto in ogni gola, pensa nuovamente/ questo guarire in trasparenza dove il cielo/ sa il credo del tuo dolore». Leggiamo, ed è come se nei versi di Bre le gole del dolore del mondo si aprissero, trovando spazio e respiro.

Accade lo stesso in una poesia ispirata al celebre quadro di William Turner La nave negriera, che raffigura il massacro della ‘Zong’, una nave da cui, nel 1781, 142 schiavi africani furono gettati a morire in mare per alleggerire il carico: «Avevamo pensato bastasse essere vivi» – scrive Bre – «Pensavamo che quel nuotare vivi bastasse/ a entrare nelle menti, essere visti/ nero fiore dell’acqua nella notte» – e prosegue – «Nessuno mai/ riposa in pace sul fondo di menti senza pace/ il vostro eterno il nostro/ la perla dell’occhio svuotato dai pesci/ cinque metri più sotto.».

L’ETERNA IMPOSSIBILITÀ di pace delle vittime del massacro della ‘Zong’ abita il tempo per sempre, ci chiama, da sotto il pelo dell’acqua, basta ascoltare: in quel battito che viene da un lontano – che è vicino – suona il battito di tutti i naufragi, di tutti i corpi abbandonati, dimenticati, non sepolti. È per loro che suonano le campane: anzi sono loro le campane, «corpi adorati tradotti/ dall’udito, tutto un cielo/ ammanettato in gola».

«Non sono mai nessuno i poeti» – scrive Silvia Bre – e non per professione di umiltà: per ascoltare il mondo, per fare posto al mondo, i poeti si fanno nessuno. Cavi fino al midollo, bucati fino all’osso, vuoti di sé, feriti, i poeti somigliano ai morenti, per questo possono scrivere di loro. Di chi non c’è può scrivere solo chi sa non esserci.
Silvia Bre è poeta, Silvia Bre è nessuno: per questo la sua gola si allarga, non per cantare forte, ma per far entrare tutti. E così, dire di un altro naufragio: «Rintocca dall’aldilà la sua tortura/ in chi rimane e vede ciò che sente, un ghiaccio/ dove giacciono senza cantare le gole dei nati/ serrate con il piombo bollente di un mare,/ a galla in un sonoro di pietà./ Confido negli affogati».
Le gole di chi non può cantare, condannate al silenzio della Storia, sono tutte accolte nelle parole di Silvia Bre, in quel voto, promessa, urlo che è l’ultimo verso della sua poesia: «Confido negli affogati.». Un verso tanto forte, che nell’atto di chiudere la poesia non può che aprire ad altro: è nello spazio restante della pagina, nel bianco della poesia finita, che il coro muto degli affogati comincia a cantare – il suo silenzio abissale ci sconvolge.

EPPURE, NON È UN CASO che questa poesia sia una delle ultime della raccolta: leggere Silvia Bre avvicina al silenzio, più la si legge, più ci si fa l’orecchio. Quando questa poesia arriva, il nostro orecchio è pronto: per tutto il tempo della lettura siamo stati al cospetto dei suoi versi come davanti ad una cerimonia muta. Non è una contraddizione: esistono poeti la cui forza espressiva è tanto grande da somigliare al silenzio. Il silenzio del cielo, il silenzio delle montagne, il silenzio di prima che nascessimo e quello di quando moriamo. Il silenzio dell’attimo prima che suonino le campane.
«A volte senti proprio nell’aria, proprio/ nelle orecchie l’inizio che aspetta/ e intanto cuce e traccia, fonda lo spazio/ senza dimenticare mentre fai/ che l’oceano dove stai non è mai altro, è l’universo/ e sa la tua presenza», scrive ancora Silvia Bre, in una poesia sulla creazione, sull’attimo prima che la parola sorga.

Leggendo Le campane noi ci sentiamo così: continuamente esposti ad una parola sorgiva, di cui – nel silenzio che la stessa Bre è capace di creare – riusciamo a cogliere il primo respiro, l’attimo prima del rintocco. È come potersi fermare ad ascoltare il respiro del mondo. E al contempo sentire, con emozione, con sconcerto, che il mondo ascolta il nostro, e lo contiene. «Che l’oceano dove stai non è mai altro, è l’universo/ e sa la tua presenza».