Mentre i senatori sfilano silenziosi dall’aula, i soddisfatti facendo attenzione a non sorridere troppo, i delusi cercando di non farsi vedere troppo tristi, tutti allora con la stessa faccia incerta, si comincia a fare il conto di tutte le volte che Berlusconi è stato dato troppo presto per morto. Nel ’94, quando Bossi fece cadere il suo primo governo; nel ’96 quando perse le elezioni; quando Casini si sfilò; quando riperse nel 2006; quando lo abbandonò Fini; quando lo lasciò Veronica; quando scoppiò il sexy-gate; quando lo sostituì Monti. Pure alle ultime elezioni sembrava finito. E adesso? Nove mesi dopo il voto politico e quattro dopo la condanna definitiva per frode fiscale, il senato è appena riuscito a «non convalidare» la sua elezione. Il presidente lo ha annunciato alle 17.42. Non c’è stato neanche un applauso. Discrezione, forse, desiderio di non infierire sul decaduto, magari, o più probabilmente confusione per i troppi ordini del giorno messi in votazione. I senatori, mentre votavano, non capivano quale era il documento decisivo, quello la cui bocciatura avrebbe condannato Berlusconi. Erano quattro, e cioè gli ordini del giorno dal terzo al sesto, tutti presentati dalla senatrice Casellati e bocciati con 194 voti contrari. Berlusconi era già decaduto da dieci minuti e non lo sapevano. Nel caos, i berlusconiani hanno anche applaudito a lungo due dissidenti di Scelta civica, i senatori Albertini e Di Maggio, quando hanno annunciato che si sarebbero astenuti perché condividevano alcune ragioni con Forza Italia. Astenendosi però hanno votato con i contrari, con gli avversari di Berlusconi. Non l’hanno capito. E così il Cavaliere, sarà che non c’era in aula ma stava in piazza, alla fine non si può dire che sia saltato via. È piuttosto sfilato dal parlamento. Se n’è andato con uno splash, non con un bang.

Venti anni dopo

Quando era arrivato, quando per la prima volta aveva preso la parole nel pomeriggio del 16 maggio 1994 proprio qui al senato, facevano più sensazione i post fascisti al governo che lui. Almeno la sinistra comunista si concentrò su Fini. Berlusconi si mise al centro dei ministri Poli Bortone, Fisichella, Fiori, Costa, Maroni, Biondi, Dini, Ferrara e D’Onofrio. Oggi, mille settimane dopo, non uno di loro si può dire ancora berlusconiano. Ad eccezione ovviamente di Ferrara.

Lesse un discorso di 29 cartelle in 50 minuti. Glielo aveva scritto in gran parte Paolo Del Debbio, che ieri sera era a condurre lo speciale Quinta colonna su Retequattro. Al primo punto del programma aveva messo il taglio del cuneo fiscale; oggi è il primo punto della legge di stabilità che ha convinto Forza Italia a lasciare il governo. Nel discorso solo quattro citazioni positive: la prima di Machiavelli, la seconda di D’Alema, la terza di Mario Monti e la quarta, banalotta, di Martin Luther King.

Era quello un senato dove sedevano ancora Fanfani, Taviani, De Martino e Spadolini. Il giorno prima del voto di fiducia, il presidente Carlo Scognamiglio Pasini invitò a pranzo i senatori a vita. Furono decisivi per far raggiungere la maggioranza al governo. Votarono sì Agnelli («discorso buono»), Cossiga e Leone, l’ex presidente della Repubblica che nel ’77 aveva fatto di Berlusconi il Cavaliere. Servirono anche le assenze di quattro senatori eletti con i popolari e rapidamente passati a destra: Zanoletti, Grillo, Cusumano e Vittorio Cecchi Gori.

Nel suo primo discorso Berlusconi parlò di giustizia. «Questo governo è parte dell’opera di moralizzazione della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati e dalla grande stampa – disse – è un governo di persone irreprensibili, tenute a un comportamento irreprensibile, al rispetto della legge e del codice etico che regola la vita pubblica».

Il lutto nell’emiciclo

Nel 1994 Maria Rosaria Rossi aveva 22 anni e secondo la biografia di Wikipedia faceva la pr in discoteca, a Roma. Oggi è la favorita di Berlusconi, è sempre con lui, magari un passo dietro Francesca Pascale. Di Forza Italia 2013 è senatrice, ed entra in aula con il lutto al braccio. Ma la fascia è sul tailleur nero e si vede poco. Si innervosisce perché nel cambio di banchi seguito alla scissione ha perso il suo posto. Era quello davanti a Berlusconi, che oltre tutto non c’è. C’è invece tutto un balletto di senatori tra gli scranni, l’aula è semideserta mentre dalle dieci del mattino va avanti un dibattito sulla decadenza che deve in qualche modo arrivare alle 15.30 per passare ai voti. Gli eletti dal popolo si spostano per coprire gli spazi vuoti accanto a chi parla, il momento è solenne e dunque ci si comporta come se ci fosse la diretta tv. Che però non c’è, malgrado Scilipoti tenti di sventolare cartelli in favore di telecamera.

I senatori di Forza Italia hanno un motivo in più per arrampicarsi lontani: vogliono evitare che dietro di loro compaiano gli odiati alfaniani. Un po’ a lutto sembrano anche quelli del Pd che non emettono un sospiro. Nessun intervento, nessuna replica alle accuse che piovono da tutto il centrodestra, solo Casson deposita un testo, poi alla fine parlerà Zanda. Le altre senatrici di Forza Italia sono in nero semplice, senza fascia. Sandro Bondi è sconvolto. Ogni tanto si alza e comincia a parlare, Grasso glielo lascia fare come a rispettare il suo dolore. La moglie, la senatrice Repetti alla sua destra, un po’ lo trattiene, ma solo un po’. Qualcuno intervenendo gli fa le condoglianze, sul serio. Bondi inveisce contro i senatori a vita, che sono venuti a «eseguire» Berlusconi. Gasparri cerca in tutti i modi di litigare con Renzo Piano, gli passa accanto insultandolo, l’architetto guarda altrove. Rubia va in missione da Gasparri, ma non cambia niente, Gasparri urla «buffone». Lucio Barani, il socialista col garofano sempre nel taschino, chiede la prova tv per uno sguardo d’intesa tra Zanda e il presidente della giunta delle elezioni Stefano. Cita ovviamente piazzale Loreto. Gli ex democristiani come Giovanardi e Formigoni, tornati a sedere accanto nelle fila alfaniane, approfittano per recuperare il Pantheon dei martiri di Tangentopoli. Berlusconi come Andreotti, Forlani, Craxi e pure Gava. Per Minzolini Berlusconi diventerà semplicemente «un eroe». Secondo Augello «la sinistra potrà aggredire solo la proiezione parlamentare del simbolo delle sue frustrazioni». Per il senatore D’Ambrosio Lettieri, farmacista, «la storia si poserà come uno sparviero sul senato, o come un avvoltoio, di certo come un rapace». Falchi e colombe berlusconiane fanno gli stessi ragionamenti, votano sempre assieme, ma si scambiano cattiverie. «Noi siamo coerentemente berlusconiani», dice Gasparri, eccitatissimo.

Per i forzisti interviene alla fine Anna Maria Bernini, proprio mentre il Cavaliere in piazza sale sul palco. Lui attacca a parlare e lei sta citando già Brecht, «prima vennero a prendere gli zingari, gli ebrei, gli omosessuali…».

Maggioranza assoluta

L’avvocato Ghedini, essendo stato in piazza, arriva in ritardo quando quasi tutto è finito. Alla fine la senatrice grillina Taverna ce la fa a farsi contestare dai forzisti. «Azzitate», le grida il senatore Aracri. La senatrice De Petris di Sel celebra il contributo parlamentare di Berlusconi facendo l’elenco di tutte le leggi ad personam. Il senatore Zanda dice «attenti colleghi, in questo clima rischiamo di perdere anche le ridotte prerogative dell’articolo 68 della Costituzione», quello che ancora prevede l’autorizzazione all’arresto e che Berlusconi ha ormai perso. Il senatore Malan tenta in tutti i modi di ripristinare il voto segreto. Anche il senatore Bruno e il senatore Nitto Palma. Grasso legge e rilegge sempre la stessa risposta: si vota sulla composizione dell’assemblea, non sulla persona Berlusconi: voto palese. Lo ha stabilito a maggioranza la giunta, stiracchiando un po’ il regolamento dove c’è scritto che sono sempre a voto segreto le votazioni «comunque riguardanti persone». I forzisti perdono i freni e cominciano a gridare «venduto» a Grasso. Poi passano ad attaccare la senatrice di Scelta civica Lanzillotta il cui voto fu determinante in giunta. Tutti strillano e per mezz’ora si votano solo due ordini del giorno, su nove. Poi si alza Bondi. Non ha bisogno di chiedere la parola. «Amici – dice – tanto hanno già deciso». E da allora si chiude in un attimo. Sette votazioni di fila, concluse sempre con un’ottantina di voti di scarto. Tanti: avrebbero resistito a qualsiasi scrutinio segreto. Ma il Pd era troppo spaventato e ha finito per fare un regalo d’addio alla propaganda del Cavaliere.

L’ultimo discorso in aula, l’unico in questa legislatura, Berlusconi lo ha pronunciato il 2 ottobre. Rapido, lo sguardo basso, le braccia incrociate sulla pancia. «Pensavamo che si potesse andare verso una sorta di pacificazione. Questa speranza non l’abbiamo deposta». Hanno deposto lui.