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La censura ai tempi del Coronavirus

La censura ai tempi del CoronavirusManifestazione per la liberazione di Patrick Zaki, detenuto nelle carceri egiziane – LaPresse

Hacker’s Dictionary Dall’Egitto al Sudan passando per il Kenya, gli attivisti del web sono bersaglio di governi autoritari. Lo stesso accade coi giornalisti in Cina, Vietnam e nelle Filippine. La denuncia di Reporter senza frontiere, Global Voices e Articolo 19

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 22 ottobre 2020

L’emergenza coronavirus sta accelerando il drastico declino della libertà globale di Internet.

Oggi che tutte le attività umane, dal commercio all’istruzione alla sanità, si stanno spostando online, attori statali e non statali usano la pandemia per modellare le narrazioni globali, censurare le voci dissidenti e costruire nuovi sistemi di controllo sociale basati sulla rete.

In Egitto, ad esempio, il governo di Al Sisi – dove è ancora imprigionato Patrick Zaki a causa di alcuni post su Facebook – ha imposto una serie di restrizioni ai social media in risposta alle proteste pubbliche che si sono svolte al Cairo e in altre città egiziane nel mese di settembre.

Diverse testimonianze riferiscono che Twitter e Messenger sono stati inaccessibili per chi usava i servizi internet di Telecom Egitto, Raya e Vodafone. Stessa sorta per il sito d’informazione BBC Arabic. Il 26 settembre attivisti locali hanno riportato che le pagine principali di Wickr e Signal erano state bloccate.

Secondo Articolo 19, Ong focalizzata sulla libertà di espressione, da marzo ad oggi in Kenya si sono registrati più di 47 casi di arresti illegali, aggressioni e molestie contro blogger, attivisti online e difensori dei diritti umani.

In Sudan accade di peggio. Le molestie online, secondo un rapporto di Human Rights Watch, qui sono opera di militari. In passato le attiviste donne sono state prese di mira dalla pagina Facebook di «Donne sudanesi contro l’Hijab», che ha pubblicato le loro foto private senza consenso insieme ad affermazioni inventate sull’essere contro il velo religioso.

Le donne sudanesi hanno però risposto con una tattica di controguerriglia social: hanno creato un gruppo Facebook chiamato «Inboxat», dove hanno riprodotto i messaggi che i molestatori gli avevano inviato. Poi hanno creato degli hashtag per denunciare le molestie online. Ad esempio, l’hashtag «Esponi un molestatore» è ancora utilizzato attivamente dalle donne per condividere le loro storie personali.

Oggi le applicazioni di messaggistica istantanea e i social media sono uno spazio cruciale per comunicare e stringersi assieme per superare la pandemia. Nonostante questo, i soggetti più attivi sono proprio quelli presi di mira da autorità e polizia.

A farne le spese sono sovente le attiviste per i diritti umani e civili che ricevono minacce di morte e attacchi informatici: doxxing, cyberbullismo ed hate speech sono all’ordine del giorno.
Le molestie online possono portare a importanti conseguenze psicologiche come ansia e depressione, ma accade anche di peggio.

Racconta Global Voices che l’attivista e giornalista vietnamita Pham Doan Trang è stata arrestata dalla polizia il 6 ottobre con l’accusa di condurre «propaganda contro la Repubblica socialista del Vietnam» e della «produzione, archiviazione, diffusione di informazioni e articoli allo scopo di opporsi allo Stato della Repubblica socialista del Vietnam». Rischia fino a 20 anni di carcere.

Doan Trang ha co-fondato la Vietnam Legal Initiative, una Ong che promuove i diritti umani in Vietnam e la rivista legale online Luat Khoa ma i suoi libri sulla democrazia sono stati confiscati dalle autorità.

In Cina, secondo Reporter senza frontiere, oltre 100 giornalisti e blogger sono attualmente incarcerati e almeno sei tra giornalisti e commentatori sono stati arrestati in relazione alla pandemia, mentre nelle Filippine due giornalisti sono stati reclusi per aver diffuso «fake news» sulla crisi del Covid-19.

Che si tratti di giornalisti, cittadini, oppositori, attivisti, sono innumerevoli gli esempi della censura ai tempi del Coronavirus.

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