L’elicottero è uno dei simboli della storia americana degli anni Sessanta. Un simbolo in gran parte tragico e legato al ricordo doloroso del conflitto in Vietnam. Nel corso dei martellanti telegiornali che all’epoca aggiornavano sugli sviluppi sempre più drammatici della guerra, il pubblico Usa iniziò ad associare le notizie dai campi di battaglia del sud-est asiatico all’immagine dell’elicottero militare che per la prima volta assumeva un ruolo centrale in un contesto bellico. Quella che diventerà nell’immaginario collettivo la «cavalleria dell’aria», drammaticamente epicizzata poi da Francis Ford Coppola in Apocalypse Now, verrà ricordata sia per i massacri di guerriglieri Vietcong e civili vietnamiti falciati dalle mitragliatrici M60 montate sui velivoli, sia per le perdite nelle fila dell’esercito a stelle e strisce.
Gli americani nell’ex-Indocina impiegarono quasi 12mila elicotteri, 5.600 vennero abbattuti. Ma l’elicottero fu anche un simbolo dell’evento che più di altri servì a denunciare alle giovani generazioni, statunitensi e non solo, l’inutilità della guerra: il festival di Woodstock. Il primo grande raduno oceanico dedicato alla pace, all’amore e al rock che ha appena festeggiato i 50 anni, fu un trionfo musicale e uno spartiacque culturale, ma fu un vero incubo logistico e organizzativo. La località in cui si svolse, Bethel, nella parte nord occidentale dello stato di New York, nella contea di Sullivan era, e lo è ancora, un piccolo paese di meno di 5mila anime, non pensato per grandi eventi e certo non preparato nell’agosto 1969 a ospitare un flusso di 400mila spettatori che avevano pagato i 18 dollari del biglietto.
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All’inizio del festival le strade di campagna si intasarono quasi subito di decine di migliaia di veicoli che crearono ingorghi lunghi 30 chilometri. In molti parcheggiarono, o meglio abbandonarono, le auto a ore di cammino dal posto designato per l’evento. Era solo uno dei tantissimi imprevisti a cui gli organizzatori non avevano pensato, ma anche a questo venne messa una toppa. Arrivarono in soccorso gli elicotteri. E, ironia della sorte per un raduno pacifista e antimilitarista, alcuni di questi erano elicotteri militari.
Nell’agosto del ’69 Clark Stahl era un giovane veterano del Vietnam, un ufficiale pilota che dopo essere stato impegnato nel soccorso sanitario dei feriti in battaglia, era ora assegnato all’addestramento dei cadetti della scuola militare di West Point, a pochi chilometri da New York. Per chi aveva visto la guerra da vicino era una vacanza. «Due ore di volo al giorno e poi passavamo le nostre giornate in piscina», ha ricordato Stahl in una recente intervista. Il suo superiore, però, lo convocò per una missione fissata per venerdì 15 agosto e che sarebbe durata tutto il weekend: fornire assistenza medica e inviare provviste a un festival rock. Il pilota rimase interdetto: «Mi chiesi, che diavolo è un “rock festival”?». Stahl capì presto quello che lo aspettava: «È una delle poche volte nella mia carriera di pilota, ed è durata 50 anni, che ho sorvolato qualcosa che mi ha lasciato senza parole. Non sapevo cosa avrei trovato ed è difficile comprendere l’incredibile concentrazione di persone che vidi sotto di me. Lo stupore dinanzi a quella scena inattesa è la sensazione che si è fissata di più nella mia memoria­». Ma proprio perché gli elicotteri militari erano così presenti in un tormentato immaginario collettivo, Stahl sapeva che doveva avvicinarsi con cautela e far capire che la sua presenza non era minacciosa, fece quindi alcuni percorsi circolari anche per far vedere che la scritta «Army» era accompagnata dalle parole «medical corp» e da una croce rossa: «Dovevo esser sicuro che la gente capisse che non era l’arrivo di Uncle Sam o delle forze dell’ordine. Eravamo lì per aiutare­». Nel corso della tre-giorni gli elicotteri dell’esercito trasportarono persone, soccorsero feriti, evacuarono una donna con le doglie e consegnarono mezza tonnellata di provviste varie, compresi circa 10mila sandwich preparati da abitanti della zona.
Il concerto non fu salvato solo dagli elicotteri militari, non appena gli organizzatori si accorsero che la situazione sulle strade era impraticabile, decisero di mettere in campo ogni risorsa possibile e contattarono tutte le compagnie di elicotteri a portata di volo, riuscendo a noleggiare 22 mezzi privati. Su uno di questi, un piccolo Bell 47, arrivò l’artista che inaugurò la kermesse, Richie Havens. La sua esibizione è passata alla storia, ma fu frutto del caso. Il festival doveva essere aperto dal gruppo folk rock californiano degli Sweetwater, i cui membri erano però smarriti nel traffico. Havens, che era insieme all’organizzatore Michael Lang, salì a bordo del suo elicottero trovando spazio tra strumentazioni varie e atterrando in tempo per l’inizio fissato delle esibizioni. Alle 5 del pomeriggio del 15 agosto, gli Sweetwater mancavano all’appello e l’aviotrasportato Havens era pronto a dare il via alla musica. Era arrivata in elicottero anche l’artista più attesa della prima giornata: Joan Baez. «Mi diedero – ha ricordato la cantante – l’ultima stanza rimasta in un hotel che era così pieno che molta gente dormiva nella lobby. Il giorno del concerto a un certo punto fuori dalla finestra atterrò un elicottero. Il pilota mi fece il gesto di salire. Mi ritrovai così a bordo con il mio manager, mia madre, Janis Joplin e non so chi altro. Quando sorvolai l’area vidi come migliaia di formiche che si recavano tutte nello stesso punto e pensai “Gesù Cristo!”. Era forse uno degli ultimi voli prima che iniziasse a piovere».
FRAGILI BARRIERE
I giorni seguenti furono un leggendario susseguirsi di momenti memorabili e imprevisti. Gli spettatori abbatterono le fragili barriere e nessuno si prese più la briga di controllare i biglietti. Un temporale immerse nel fango (e nello sterco di vacca, visto che parte del campo era un pascolo) gli spettatori. Gli Iron Butterfly erano uno dei gruppi più popolari di quella stagione musicale. La loro esibizione era fissata per la domenica, arrivarono all’aeroporto di New York all’ultimo e non provarono neppure a raggiungere il festival in macchina. Attesero che un elicottero li venisse a prendere. Invano. «Il loro manager era un arrogante – ha ricordato Michael Lang nel libro di memorie The Road to Woodstock -, noi eravamo immersi in problemi fino al collo e avevamo cose più importanti da fare. L’elicottero se lo potevano scordare».
Sorvolò l’area anche il giornalista italiano Furio Colombo, ai tempi corrispondente dagli Stati Uniti. Per lui gli elicotteri che evitavano la folla segnarono anche la fine di un’epoca, quella della comunione tra l’artista e il suo pubblico. «Gli elicotteri lanciavano fiori – ha scritto Colombo – arrivando e partendo con i divi della doppia infrazione, bandana, torso nudo e grande albergo. E annunciavano che, d’ora in poi, il mondo è diviso in due sole classi: con e senza mezzi propri di trasporto, con e senza i guardaspalle. E i giovani sempre fuori, ad agitare le braccia e ad accendere lumini per il culto-spettacolo. La diaspora è cominciata a Woodstock, fra avere e non avere un’immagine, avere o non avere un microfono aperto, avere o non avere il dominio dei mezzi di comunicazione di massa». Il festival si concluse con Jimi Hendrix che nella surreale alba del 18 agosto straziava le note dell’inno americano, il pubblico stava già sciamando via.
Ma questa storia però si conclude molti anni dopo. Il 19 agosto 2013 un piccolo velivolo sorvolò il campo che anni prima aveva ospitato il concerto che cambiò la storia. Caddero su quel terreno delle ceneri. Erano quelle di Richie Havens. Era arrivato dal cielo e dal cielo era ritornato a Woodstock. Il luogo che l’aveva reso immortale era quello in cui aveva scelto di rimanere per sempre.