Poco sotto l’equatore di Marte c’è una frana gigantesca. La frana copre una superficie grande come Londra, circa millecinquecento chilometri quadrati. Secondo i calcoli, nello scivolare a valle la roccia dovrebbe aver raggiunto velocità pazzesche, dell’ordine dei 360 chilometri orari. Quello che rimane oggi, nel sistema di canyon marziani detto Valles Marineris, è uno smottamento percorso da enormi solchi longitudinali, lunghi decine di chilometri che corrono paralleli a centinaia di metri di distanza l’uno dall’altro. A un occhio inesperto, le immagini satellitari fanno pensare a un gigantesco campo arato. Escludendo i contadini marziani, come si è generata una frana così particolare, nell’immobilità che oggi caratterizza il Pianeta Rosso?

È LA DOMANDA che si pone Giulia Magnarini, geologa e planetologa piemontese oggi dottoranda all’università Ucl di Londra. Questa in realtà è la sua seconda vita: fino a qualche anno fa, Magnarini giocava a basket, sport che l’ha portata sino ai massimi livelli (ha giocato nella serie A2) senza però impedirle di studiare. Dopo la carriera sportiva, non più ragazzina, è partita per Londra. «Qui l’età non è un fattore discriminante», racconta. «C’è più attenzione al gender gap tra ricercatori e ricercatrici e alle condizioni di stress psicologico che impone la ricerca». Con il suo gruppo ha appena pubblicato uno studio sulla rivista Nature Communications. Lei è la prima autrice, il ruolo riservato a chi ha dato il contributo maggiore allo studio. Tra gli autori della ricerca c’è anche l’ottantaquattrenne Harrison Schmitt, l’ultimo uomo a posare il piede sulla Luna nel 1977.

«UNA FRANA SIMILE c’è anche sulla Terra», spiega Magnarini. «Si trova in Alaska, sul ghiacciaio Sherman, e presenta solchi molto simili a quelli della frana marziana. È stata causata dal terremoto del 27 marzo 1964, e anche lì la roccia dovrebbe aver raggiunto velocità notevoli, fino a 340 chilometri orari». Dato che la frana terrestre ha riguardato un ghiacciaio, molti ritengono che anche su Marte una frana con quelle caratteristiche debba essere scivolata sul ghiaccio, o debba essere stata favorita dalla presenza di materiale fluido. Il ghiaccio sul Pianeta Rosso è abbondante, ma concentrato nelle calotte polari. Vicino al Polo sud, secondo una ricerca italiana del 2018, potrebbe esserci anche acqua liquida, in un lago sotterraneo un chilometro e mezzo sotto la superficie marziana.

Ma per il momento si tratta dell’unico indizio della presenza attuale di acqua liquida su Marte. La ricerca dell’acqua sul pianeta oggi è una questione che riguarda soprattutto i geologi, che studiano le rocce del passato. Se sul pianeta c’erano fiumi, laghi e oceani, oggi dovremmo trovare coste erose, letti di fiumi, depositi salini. Le speciali caratteristiche della grande frana marziana ci hanno portato a credere che anche sul resto del pianeta vi siano state in passato grandi quantità di acqua, e forse persino la vita.
Magnarini e i suoi colleghi, invece, hanno un’ipotesi diversa.

GRAZIE A FOTO SATELLITARI dettagliatissime, hanno misurato con precisione le dimensioni dei solchi, il volume della frana e la velocità stimata con cui ha avuto luogo. Poi hanno confrontato questi dati con i valori che si osservano simulando in laboratorio frane simili in assenza di ghiaccio, e i numeri coincidono. «Dunque, la presenza di ghiaccio non è strettamente necessaria per spiegare le gigantesche frane delle Valles Marineris, con quei lunghi solchi», conclude Magnarini. La roccia, quando viene ridotta allo stato granulare, mostra comportamenti complessi e contro-intuitivi, che spiegano la formazione di smottamenti così disastrosi anche sulla Terra.
Magnarini non è alla ricerca di alieni, ma studia i meccanismi alla base delle frane sulle montagne terrestri. «Il mio progetto riguarda le cosiddette mega-frane. Ne sono capitate anche sulla Terra: percorrono distanze enormi e mettono a rischio vite e infrastrutture. Ma non si spiegano con la fisica classica».

MARTE È UN LABORATORIO perfetto per i geologi come Magnarini: «su Marte da tantissimo tempo non ci sono piogge né attività vulcanica e sismica, che sulla Terra modificano le tracce dei movimenti delle rocce e rendono difficile studiare eventi geologici del passato. Su Marte, invece, rimane tutto intatto, come congelato». Ed è questo obiettivo a portarla a esplorare altri mondi. «Stiamo studiando una mega-frana in Cile, nel deserto di Atacama, quella su Marte e una terza, sulla Luna, nella Valle di Taurus-Littrow, vicino alla zona in cui allunò l’Apollo 17. Anche lì ci sono frane simili e sulla Luna non c’è mai stato ghiaccio, per quanto ne sappiamo».
Non è un caso se nel suo gruppo di ricerca c’è anche il geologo dello spazio Harrison Schmitt, ex-astronauta della Nasa. Dopo le missioni spaziali è diventato senatore repubblicano. Oggi è professore all’università del Winsconsin e non crede all’impatto umano sul clima. Nel 1977, uno degli obiettivi della missione Apollo 17 a cui partecipò era raccogliere campioni per studiare il suolo lunare. Le frane spaziali, lui le ha viste davvero da vicino.

Durante la missione Apollo 17, Schmitt scattò una foto poi divenuta famosissima, «The Blue Marble» («La biglia blu»). Mostrava la Terra vista dallo spazio ed è una delle immagini più riprodotte al mondo. Gli astronauti scherzarono via radio con Houston: «L’equipaggio conferma che la terra è rotonda». Era una battuta, ma era anche l’inizio di un punto di vista diverso sull’epopea spaziale. Più delle suggestioni sugli extra-terrestri e al di là della competizione militare che ha caratterizzato la Guerra Fredda, studiare i pianeti lontani oggi serve soprattutto a capire il nostro. E a trattarlo meglio.

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IL CRISPR 2.0 E LE MUTAZIONI GENETICHE

Il gruppo di ricerca guidato da David Liu dell’università di Harvard e del Broad Institute di Boston ha sviluppato una versione perfezionata del metodo Crispr di modifica genetica. Il metodo serve a correggere o a introdurre mutazioni genetiche nel Dna di una cellula al fine di curare le malattie genetiche o di creare organismi geneticamente modificati. La versione tradizionale del metodo si limita a «tagliare» il Dna nel punto stabilito grazie all’enzima Cas9, mentre la versione 2.0 della biotecnologia fornisce all’enzima Cas9 non solo l’informazione sul punto in cui modificare il Dna ma anche una matrice della modifica da effettuare. Il metodo, testato solo in vitro, corregge con maggiore precisione le mutazioni indesiderate. Secondo i ricercatori, si potrebbe applicare all’89% delle varianti patogeniche umane. La ricerca è stata pubblicata su «Nature».

LA MEMORIA NELL’INTESTINO

I microbi presenti nel nostro intestino non si occupano solo di digestione. Da tempo si sta studiando l’influenza del «microbioma» su un ampio ventaglio di funzioni dell’organismo. Una nuova ricerca del Karolinska Institute di Stoccolma, pubblicata su «Science», ha scoperto in un esperimento sui topi che i microbi dell’intestino influenzano anche la memoria. Gli scienziati hanno addestrato i topi a riconoscere l’associazione tra un evento e un segnale doloroso. La memoria, grazie al processo detto «estinzione», è in grado di dimenticare l’associazione, se l’evento si ripresenta senza provocare dolore. Rimossi i batteri dell’intestino, però, i topi si sono dimostrati incapaci di attivare il processo e questo dimostrerebbe che il microbioma è in grado di influenzare processi cerebrali apparentemente indipendenti.