Sarà bellissimo», ha detto il Presidente del Consiglio Conte, riferendosi al 2019. Un’affermazione che, purtroppo, fa a pugni con tutti gli indicatori economici del Paese e delle principali economie del pianeta. E c’è il rischio di una nuova bolla finanziaria.

Non si tratta di essere catastrofisti, ma di prendere in seria considerazione i segnali che giungono, contemporaneamente, tanto dal mondo della finanza quanto da quello dell’economia reale. Si è chiuso un ciclo. L’immensa liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali in questi anni ha finito per gonfiare una nuova bolla finanziaria (tra Fed, Bce e Banca del Giappone sono stati stampati oltre diecimila miliardi di dollari), mentre le tensioni commerciali tra le grandi potenze sta piegando il ritmo di crescita dell’economia globale. Uno scenario, per certi versi, ancora più insidioso di quello che preparò il terreno al grande crack finanziario del 2007-2008.

A chi, forse per scaramanzia, respinge l’idea che, a distanza di dieci anni, lo scoppio di una nuova bolla finanziaria possa scaraventare di nuovo l’economia mondiale nel fango, basta ricordare che i mercati azionari hanno galoppato ad un ritmo frenetico fino all’autunno dell’anno scorso, ma adesso il rally sembra finito (bruciati già oltre 15 mila miliardi di dollari). Numeri da capogiro. Una «fase rialzista» che è andata avanti per nove anni consecutivi (2009-2018), portando il valore delle azioni di tutte le società quotate sulle Borse del mondo vicino ai 100.000 miliardi di dollari, a fronte di un Pil mondiale stimato al di sotto degli 80.000 miliardi di dollari. Una cosa simile si è verificata soltanto prima della Grande depressione (1929-1939).

L’interrogativo, a questo punto, è: l’aggiustamento sarà graduale e ordinato o repentino e caotico? Per adesso, sulle piazze mondiali prevale una certa volatilità (il valore delle azioni globali è crollato del 17% nel quarto trimestre del 2018, ma nel primo mese di quest’anno c’è stato un rimbalzo del 7%). Molto dipenderà dall’andamento dell’economia, in primis di Cina e Usa.

Si va verso una nuova recessione? Diciamo che il termometro, per adesso, registra solo una febbricola. Dopo il picco del secondo trimestre del 2018 (+4,2%), il Pil americano ha iniziato a mostrare qualche segno di sofferenza. Tanto da spingere alcuni osservatori a parlare di un dimezzamento dello stesso nel 2019 (è quello che prevede Goldman Sachs). Una prova sarebbero anche i rendimenti, troppo alti, dei titoli di stato (gli investitori scommettono su un indebolimento dell’economia). Preoccupazione anche a Pechino, sebbene il tasso di crescita si mantenga ancora al di sopra del 6% (nel 2019 potrebbe scendere al 6,2% dal 6,9% del 2017). Più cupe le previsioni per l’Europa, dove il rallentamento registrato nel 2018 rischia di tradursi in una brusca frenata nell’anno in corso. Non a caso la Germania ha messo le mani avanti, prevedendo una crescita che non andrà oltre l’1%.

E l’Italia? Abbiamo appena salutato il ritorno della recessione (tecnica), dal mondo finanziario e dal settore bancario si leva un odore acre che non lascia presagire nulla di buono. Il 2018 si chiude con un tasso di crescita intorno all’1% (per Bankitalia è 0,9%), per il 2019 si stima che lo stesso possa attestarsi poco più al di sopra dello zero (0,6% è la stima del Fondo monetario, l’Ue verso la pronuncia di un misero +0,2%). Non va meglio per le esportazioni, che tra novembre e dicembre hanno fatto registrare un calo del 5,8% nel mercato extra-Ue. Tra il 2017 e il 2018, di contro, la Borsa di Milano è cresciuta del 25%. Recenti stime di istituti indipendenti parlano di una crescita degli attivi finanziari del 1000% rispetto all’economia reale. In linea con una tendenza che ha coinvolto le borse di tutto il mondo, anche per l’Italia si può parlare di bolla finanziaria, che può sgonfiarsi piano piano o scoppiare, con tutte le conseguenze del caso. Nel frattempo, gli istituti di credito sono alle prese con lo «smaltimento» dei crediti inesigibili (sono passati da 196 a 159 miliardi di euro tra settembre 2017 e giugno 2018) e con il rischio di una svalutazione dei titoli di stato che hanno in pancia (370 miliardi). Economia che va giù, un mercato azionario ancora sopravvalutato, il valore dei titoli di stato che minaccia la stabilità bancaria. Brutta congiuntura. Ma niente di strano. Per dirla con James K. Galbraith, «il grande problema del capitalismo è stato sempre la crescente gravità dei cicli economici, tra rapide espansioni e dure recessioni». L’importante è non sottovalutarne la portata e girare la testa da un’altra parte.